Andrea Dovizioso: l'elogio di essere sé stessi
Al tempo non si sfugge. Aveva ragione il compare di Sean Penn in This must be the place, un grassoccio che spiegava come avere successo con le donne a prescindere dall’estetica, dall’intelligenza, dai soldi. Ci vogliono tempo e curiosità, diceva. Il tempo le fa sentire apprezzate e ascoltate, la curiosità invece serve proprio per trovare il tempo da dedicare alla conquista. Ora togliete le donne, mettete le moto. Qui batte il segreto che si chiama Andrea Dovizioso. Il tempo è quello che il pilota Ducati MotoGP ha speso ad ascoltare e migliorare se stesso, «uno tranquillo, uno che non si nota», nonostante il mondo ti richieda di essere guascone, brillante, mediatico e social.
La curiosità invece è quella che lo ha aiutato ad applicarsi sempre e comunque. Ci sono voluti anni, sorpassi, cadute, attese però Dovizioso a un certo punto è riuscito a dare occhiali nuovi a chi lo guardava, non è stato più quello che c’era ma non c’era, quello bravo sì ma però, ma improvvisamente è diventato interessante, giusto, figo. Solo che a cambiare non è stato lui, ma la sua percezione in noi. Attenzione: questa non è la rivoluzione della normalità, questo è l’elogio dell’essere se stessi. Guardatevi intorno, tutti siamo lì a cercare di dimostrare, apparire, renderci più sexy e indossiamo occhiali da sole per essere avere più fantomatico mistero. E invece. E invece il Dovi.
Libro da leggere
Asfalto (Mondadori, in libreria, qui dove acquistarlo su Amazon) racconta perché per la gente Andrea Dovizioso ha smesso di essere trasparente restando trasparente. Era forte, certo, ma non bucava come Valentino Rossi o Marc Marquez. Era uno dei piloti top, ma quando arrivava il momento, qualcosa gli mancava. Poi arriva Sepang, Malesia, il 2016 l’anno. Quando, sotto il casco, fa una cosa strana, almeno per lui: piange. Tira fuori un’emozione. Perché 7 anni dopo la sua vittoria vince ancora.
E ancora di più arriva il Mugello, nel 2017 (qui gli orari di questo weekend). La sera prima mangia qualcosa che gli fa male, la domenica mattina non se la sente di correre, e poi cosa combina? Vince anche qui. E perché? Perché in questi momenti è stato capace di trovare un equilibrio tra ciò che nel libro chiama cavallo bianco e cavallo nero, tra razionalità e follia. Al tempo non si sfugge. E ci vuole tempo per essere se stessi, anche se gli altri ti giudicano giusto o sbagliato, ché giusto e sbagliato forse sarebbero categorie da abolire. Questo insegna questa autobiografia, scritta con la collaborazione di Alessandro Pasini del Corriere della Sera, che ha avuto l’abilità di farsi da parte, di lasciar parlare la testa di Dovizioso e di aggiungere qui e lì qualcosa di suo, anche solo qualche frase tratta dai film di Paolo Sorrentino (ecco il perché della citazione iniziale).
Danzare come Jackson, pensare come Einstein
Leggendo Asfalto si capiscono molto di più le cose, perché a spiegartele è uno che ragiona pure in piega a 280 orari (la descrizione che fa di quando è dietro a Valentino Rossi e Andrea Iannone a Sepang è pazzesca), capisci di più gli altri piloti («uno come Marc Marquez è sempre meglio non averlo intorno, né dietro né davanti, neanche in tribuna»), capisci di più cosa si prova in gara («appena abbassi la visiera il cervello gira più veloce, le percezioni si dilatano, i sensi si affinano, l’occhio è un grandangolo e tu diventi un animale capace di cogliere ultrasuoni e infrasuoni»), capisci di più le corse («Devi danzare come Michael Jackson e pensare come Albert Einstein»).
Ma soprattutto capisci di più Andrea Dovizioso, quasi tutto cavallo bianco, appunto. Spesso gli altri piloti sono cavallo nero e basta, lui no, lui ha bisogno del conforto dei dati anche sul suo corpo, se gli altri piloti corrono con gambe rotte, infortuni, Iui, invece, procedo cauto, «sono il patologo che seziona da viva una corsa che ho già immaginato cento volte da ieri nella mia testa». Un ragazzo che si mette in discussione, anche oltre il buon senso: «Intransigente con me stesso, vado oltre l’onestà e la verità, fino a diventare autolesionista. La maggior parte della gente cerca scuse per giustificarsi; io, se penso di avere una piccola colpa, mi autodenuncio e la metto davanti a tutto. La amplifico. Vedo solo quella. Analizzo, sviscero, rompo il capello in quattro, quattrocento, quattromila pezzi. Ragiono, rimugino, rimesto, perdo di vista pure le cose positive che ho fatto». Un ragazzo cresciuto unendo la passione, che deriva da un elemento maschile (il padre), e il raziocinio, che deriva dalla componente femminile (la madre); un pilota che sin da piccolo, tra i divani di famiglia, ha imparato a salire sulla moto, cadere, risalire, riprovare, ricadere, resistere, cadere, cadere meno, non cadere più, anche con l’aiuto del babbo Antonio, una delle figure più importanti di questo libro.
Questo passaggio spiega tutto perché contiene la fiducia, la competizione, il senso del limite:
«La staccata, per esempio. Un giorno racconteranno che io sono uno dei più grandi staccatori di sempre. Vero. Ma a 7 anni io di staccare ho una paura fottuta. Mica facile: arrivi a palla in fondo al rettilineo, devi pinzare il più tardi possibile e buttarti nella curva. Siamo sinceri: io lì mi cago addosso. Così stacco molto prima di quando dovrei. Di solito, questo non mi impedisce di vincere ma, come dice il babbo, così non si cresce. La sua contromossa è semplice. “Adesso mi metto a bordo pista e tu stacchi dove sono io”. Io eseguo. Poi ripeto al giro dopo. E poi a quello dopo ancora e ancora e ancora e ancora, finché a un certo punto vado dritto. Rientro in pista, riparto, nei giri successivi non sbaglio più. Alla fine, però, c’è qualcosa che non quadra. “Babbo, perché prima sono andato dritto? Io ho staccato sempre dov’eri tu!”. Lui mi rivela il suo trucco, e cioè che a ogni giro si spostava in avanti di un metro fino a farmi trovare il limite esatto per la staccata ottimale. Quando l’ho superato e sono andato per le terre, al giro dopo è tornato indietro di un passo e lì è restato. Limite trovato».
L’abbraccio con Simoncelli
L’autobiografia non tralascia niente (forse solo la separazione dalla madre di sua figlia, comprensibilmente), tocca le notti a non dormire perché i genitori litigano, gli occhi che non si chiudono, le lacrime che scendono perché il babbo dice che va via di casa perché tradisce la mamma (che onestà in questi passaggi), l’azienda di famiglia che fallisce e anche questo è tirare fuori un’emozione, scrivere un libro così, che gli scrittori veri poi si vergognano di uscire dalle verità che dicono.
Per fortuna che il padre se ne va di casa ma non se ne va dalla sua vita, anche se la vita senza soldi, dopo il fallimento del negozio di divani, è un’altra vita. E lui impara dal padre anche quando il padre gli mostra i difetti: «Magari non è ortodosso, ma certe volte insegnare è anche mostrare che cosa non devi diventare». Ecco la capacità analitica, di riflessione di Andrea Dovizioso. La forza di guardare in fronte la realtà esattamente come si fa con una curva. Così fa pure con gli avversari che spesso sono decisivi al pari degli amici, perché con alcuni di loro Dovizioso è cresciuto, si è misurato, dalle minimoto alla MotoGP, vedi Simoncelli.
E uno dei passaggi più toccanti riguarda l’abbraccio tra lui e il babbo di Marco, Paolo, appena dopo l’incidente che ci ha portato via il Sic. Ed è proprio qui che si capisce tutta l’importanza del suo manager Simone Battistella, che lo segue e lo consiglia nelle scelte di moto e di vita, tanto da sembrare un guru, e che proprio dopo la morte di Marco, quando Andrea dice che è tutto talmente assurdo che non sente né dolore né niente, come se fosse sospeso in un’altra dimensione, gli spiega: «La botta arriverà, Andrea. E quando arriverà vivila con la massima intensità, lasciatela scorrere dentro, non sfuggire la sofferenza creandoti rumore attorno. Sarà un momento importantissimo di vita, una profondità che non ti farà male».
La paura di cadere
Attraverso Asfalto entri dentro il dietro le quinte dello scintillante MotoGP che poi così scintillante non è. Qualcuno ha detto: niente sopravvive al retroscena. Ed è così. Scopri l’istinto di babbo Antonio che rinuncia a portare suo figlio nelle mani dello stesso ex manager di Valentino Rossi, Gibo Badioli, che lo aveva invitato a prendersi la residenza in Inghilterra. Scopri gli spigoli in Ducati anche quando dall’esterno tutto sembra andare bene, il decisionismo di Gigi Dall’Igna, cosa pensa di Iannone («arrogante e scorretto»), le difficoltà del team Tech 3 dove si mangiano panini e per staccare forte i freni se li è dovuti comprare da solo (anche se poi a fine anno Hervé Poncharal salderà il conto). Scopri cosa passa dentro la testa di un pilota quando cade e passa dall’asfalto alla ghiaia...
«Se farsi male è brutto, realizzare che potresti farti del male mentre sta succedendo è persino peggio: è il momento in cui hai meno controllo nella tua vita. Un casino, ma ci devi convivere. Perché la paura sta nella valigia di ogni pilota infilata tra le calze, le maglie e il dentifricio. Te la porti con te dalla prima all’ultima corsa della vita, e se per caso ti dimentichi di metterla in borsa lei ti viene a cercare comunque, manco avesse il GPS. Non significa che corri spaventato. Nessun uomo, anche se non è mai salito su una moto, dovrebbe vivere spaventato. Sarebbe la sua fine. Significa però che quei momenti, prima o poi, arrivano per tutti. E bisogna saperli maneggiare con molta cura».
Cavallo bianco e cavallo nero
Ma non si può controllare tutto, e per Andrea Dovizioso capirlo è stato l’ostacolo più grande: «Mi sono chiesto spesso se è un problema, se questo trattenersi diventa poi un freno quando in gara servirebbe osare di più. A vedere uno come Márquez dovrei rispondere di sì. Lui, che con la caduta ha un rapporto quasi erotico, arriva al punto di cercarla, accarezzarla, blandirla, sfidarla: sfruttarla per capire dove sta il limite, con la sua classica scivolata in curva quando piega con le orecchie a toccare l’asfalto». Perché la paura di cadere è umana, «e non ci rende né più né meno eroi, anche perché noi non siamo eroi. E comunque la paura di cadere non è mai la paura di morire. Questo, semplicemente, non può accadere, perché se accade significa che è arrivato il momento di smettere. Noi piloti conosciamo le regole del nostro gioco. Sappiamo ciò che rischiamo e forse è proprio questa la ragione – una delle ragioni – per cui corriamo. Accettiamo questo stato perché vogliamo essere liberi di fare ciò che desideriamo nella vita, scegliendolo».
Il farsi male casomai è un'eventualità delle corse. Per restare in tema Sorrentino, una conseguenza dell’amore. Ché poi, alla fine, lo dice lo stesso Dovizioso, è tutta una questione di equilibrio relativo: troppo controllo, poco controllo, giusto controllo. «Si pendola sempre lì, sul filo, in continua sospensione, senza rete». Di questo si vive, di piccoli aggiustamenti di traiettoria, per tentare di commettere meno sbagli e saper correre meglio sopra i problemi.
Tieni botta, Andrea
Il Dove riflette, analizza, conclude: «Mi tengo una specie di piccola doppia morale che non abbandonerò mai più anche quando smetterò di correre: 1. Bisogna accettare le cose che non capisci, anche se ti sembrano le più folli. 2. Bisogna avere la forza di capire di avere un bisogno. Di fronte ai fallimenti non si devono trovare scuse come: “Sono fatto così” o persino abbandonarsi, come succede purtroppo a più atleti di quanti si possa immaginare, alla depressione. Bisogna affrontare le nostre zone d’ombra e indagarle, anche se è un rischio. Perché non sai mai che cosa si nasconde nell’ombra».
Niente giustificazioni, nessuna frustrazione, perché anch’io, come Dovizioso, di frustrati che vincono non ne ho mai conosciuti in vita mia. Ed è fondamentale capire dove si vuole arrivare e chi si vuole essere, in un circuito e nella vita di tutti i giorni, e non perdere di vista il percorso che si vuole compiere anche quando sei in gara e «sei in crisi, ti urlano le vesciche sulle mani, ti esplodono le braccia, ti bruciano i piedi sulle pedane, ti manca il fiato, senti che non ce la fai più, che qualcuno ti sta andando via e non lo riprenderai mai e sai benissimo che la corsa è andata, lo stomaco si stringe, la delusione ti mangia, e ti stai sui maroni te, la moto, le corse, questa merda di vita da globetrotter».
Ma anche questi momenti sono passaggi. Non importa che il mondo ti tiri da una parte, verso quella direzione dove devi essere per forza sorridente, per forza televisivo o social, importa stare bene con se stesso, che non bisogna per forza fare confronti. Che ognuno, nella sua vita, ha un ruolo e l’importante è interpretarlo bene, con onestà, senza troppi compromessi. È così bello quando un percorso si compie. Dal bambino Andrea che finché sa che può correre, finché sa che babbo troverà la benzina per partire, lui è posto e «per il ritorno, troveremo una soluzione», all’uomo di oggi, che dice: «Non posso sapere come andrà questa stagione. Quante gare vincerò, se ne vincerò, e come finirà il Mondiale, come si evolverà la mia moto, e quella degli altri, e le gomme, e l’elettronica, e come reagiranno i miei muscoli, il mio cuore, e quali contratti arriveranno, quali nuove cazzate mi toccherà ascoltare dagli esperti, quanti nuovi applausi mi meriterò di sentire. Non lo posso sapere e, soprattutto, non mi preoccupo. Perché io adesso sto a posto così».
Nel mezzo a tutto questo Andrea si tiene al manubrio come ci si tiene a qualcosa che non si vuole perdere, lo ama e ama la moto, che poi è tutto quello che conta l’amore, l’amore, il perseverare, il crederci, il tenere botta. E lui la scritta ten bota ce l’ha tatuata sul polso. Tieni botta, Andrea. Al tempo non si sfugge. Ed è vero, come scrivi, alla fine la verità è che uno dei momenti più belli della vita è quando sei al limite del troppo: non stai cambiando, stai evolvendo.
Bravo Dovi!