I racconti di Moto.it: "Compagno di strada"
Forse era lui, o forse no. Forse ho solo visto una moto identica alla sua e in sella c’era un altro. Capita di sbagliarsi, quando si è scossi da un terribile dolore e forse, temo, ieri ho ecceduto nuovamente con le pillole.
Da un po’ di giorni dormo quello che posso, certe volte giorni interi, altre vedo spegnersi le notti nell’alba e poi di seguito. Vado tanto in moto, tragitto casuale, orari casuali, ho la comprensione di tutti.
Scendo dalla moto, tolgo il casco e i guanti.
Di tutte le cose che ci accadono noi ci chiediamo “perché?”.
Entro nella hall dell’ospedale, prendo l’ascensore.
Chiedermi il perché delle cose è diventato da un po’ di tempo a questa parte un esercizio quotidiano, una sorta di catarsi e controprova del fatto che restare in vita è un caso, respirare non basta. Cose insignificanti, adesso che sento la sua mancanza, diventano oggetto di pensieri raffinati e senza risposta, senza replica da parte della verità; anche di questo chiedo a me stessa il perché.
Sarebbe andata allo stesso modo se lo avessi trattenuto dieci minuti in più? Se non avessimo avuto quelle discussioni odiose? Sogno spesso di parlargli e spiegargli che lo aspetto.
Sento l’odore di quella stupida scienza che è il calcolo delle probabilità e non mi piace. Odore vecchio come la morte, tanfo di quei luoghi neri e umidi nei quali abbatti il silenzio a colpi di tosse polverosa; il calcolo delle probabilità dice che c’è una possibilità su un milione che Aldo si riprenda. Io ci conto.
Terzo piano, esco dall’ascensore e vado a destra. Saluto con un cenno l’infermiera, nessuno mi parla, non parlo a nessuno.
Se Aldo vedesse dove si trova ora, penserebbe ad uno scherzo: giace su un letto dalle lenzuola bianche sotto tende asettiche e lo collegano al mondo più tubi che respiro; le uniche cose sporche le ho messe in un sacchetto nel bagno: i suoi vestiti dell’incidente. Non li ho buttati perché sono sicura che quando aprirà gli occhi vorrà sapere quello che è successo e forse vedere il suo abbigliamento da moto buono per il macero gli darà il senso del pericolo passato; si chiederà anche lui “perché?” per rispondersi con ironia e leggerezza, lui non si cura delle cose grevi.
Cos’è che ti ha convinto ad andare in giro con quel nubifragio? E quei fiori sparsi accanto a te, esanime, e alla tua moto coricata e spenta? La cosa buffa è che la moto è solo graffiata, non così il tuo casco frantumato sull’asfalto.
Varco la soglia del reparto terapia intensiva. Il corridoio è lungo e la stanza di Aldo è distante da qui.
Proprio il giorno del mio compleanno, doveva accadere.
Il mio senso di colpa alleatosi col buon senso mi chiede “Perché non te ne stai a casa e aspetti che la situazione migliori, cercando di occuparti della tua vita? Hai una colpa da espiare venendo qui?”
Mi manca.
E’ vero: devo riprendermi la mia vita normale, dormire, vivere regolarmente, lavorare, dire grazie agli amici e congedarli dal loro ruolo di paracadute. È il primo passo. È giusto.
Arrivo alla porta e busso, ovviamente non sento alcuna risposta.
Entro e lui non c’è. Il letto è vuoto e in ordine. Mi sento risucchiare dal vuoto alle mie spalle, la stanza si fa piccola e lontana mentre giro gli occhi per capire come mai è tutto così freddo e ostile, e io così minuscola e insignificante.
D’improvviso sento cingermi la vita ed è un medico, lo conosco bene è il dottor Sottile: giungono rapidamente altri medici e infermieri, premurosi, cortesi, sorridenti: uno porta anche una sedia a rotelle. Tutti agitano la bocca; mentre mi fanno dolcemente accomodare sulla sedia e mi portano via, torno in me, la realtà mi piomba addosso in picchiata e sfonda il muro della mia mania.
Sono ossessiva, sostengono i medici, da quando ho compiuto 35 anni e sordomuta da sempre; preda delle mie manie dal giorno del mio trentacinquesimo compleanno passato come quelli precedenti da sola, a casa con i miei. Volevo tanto che qualcuno mi portasse dei fiori, in sella ad una moto della quale non potrei sentire il rumore; del resto nemmeno Aldo esiste veramente: proiezione dei miei desideri, ne vaneggio da sola, senza poterne parlare a nessuno, senza ascoltare nessuna parola di conforto o di lenimento per la mia condizione, e io non avrei mai potuto parlargli.
Mi chiamo Letizia, ma in paese e per tutti io sono solo una matta, quella matta, che alterna giorni di ricovero ad altri di lucidità. Nessuno ha paura di me, però mi evitano. Nessuno mi parla, non potrei sentire: avverto la pioggia sulle mani e colare sul volto quando guido durante le giornate d’inverno; afferro solo una parte dei discorsi che il vento intavola quando penetra nel casco: una sberla che mi schiaffeggia la testa; dicono che il rumore dell’aria diventa la tua canzone preferita. Volevo dei fiori e “tanti auguri a te”, vedere i miei genitori contenti e fieri di me, una volta. Attendevo da trentacinque anni. Volevo ascolto ma “ascolto” è una parola della quale non percepisco i contorni.
Aldo è venuto a prendermi una mattina con la sua moto. Scendo giù in strada e c’era lui a chiedermi di fare un po’ di strada insieme. Mi segue, mi parla, io lo sento: la sua voce è l’unico suono che conosco.
Mentre mi danno le pillole, mi manca. Mentre mi mettono a letto, lo penso. Penso.
Forse era lui. E’ guarito ed era lui.
Antonio Privitera
Immagine dal Web
Emozione!
Bella....
C'è modo di mandare un proprio scritto della lunghezza di questo alla redazione di Moto.it ?