Direzione Est: Myanmar
Adesso ad attenderci c’è una parte di viaggio burocraticamente noiosa, ma a cui eravamo preparati ancora prima di lasciare casa.
Il Myanmar obbliga per legge i turisti che arrivano da border terrestri e con veicolo proprio (come nel nostro caso), ad attraversare e/o visitare il Paese in compagnia di un tour operator locale, il quale ha il compito di accompagnare i visitatori lungo il tragitto che va dalla dogana di entrata a quella di uscita: una specie di scorta quindi, seppur di gran lunga diversa da quella che abbiamo dovuto affrontare durante il recente periodo trascorso in Pakistan. Noi ci siamo rivolti alla Myanmar Senses Family, che con grande professionalità e pazienza ci fornisce degli ottimi servizi e una piacevole compagnia. Non nascondiamo che i costi che propone tale agenzia non sono del tutto economici, anzi, a dirla tutta si allontanano parecchio dai nostri standard di viaggio: soprattutto se si considera il Paese in questione, dove il costo medio della vita risulta veramente basso. E confessiamo anche di non amare per niente i tour di questo tipo, in quanto la scelta di viaggiare in moto e in modo autonomo nasce prima di tutto dalla possibilità di avere la libertà di godersi ogni attimo senza pensare allo scorrere delle lancette. Ma nonostante ciò decidiamo di piegarci alle regole, in quanto unica soluzione per visitare questa fantastica terra.
Appena varcato il confine con l’India, ci troviamo davanti il grande ponte di legno che annuncia con orgoglio l’entrata in Myanmar. Pochi chilometri sono sufficienti a farci rendere conto di quanto mondi così vicini siano in realtà così differenti: qui le strade sembrano deserte in confronto, qualsiasi spazio appare vuoto e piacevolmente tranquillo; qualsiasi sguardo che incontriamo, anche solo di sfuggita, non ci nega un sorriso, è come se tutti sapessero del nostro arrivo e volessero ora darci il benvenuto; torniamo ad assaporare la bellezza dei paesaggi rilassanti incorniciati in folte chiome verdi e freschi ruscelli, e finalmente ci ricordiamo quanto sia bello viaggiare in sella nell’aria pulita, senza l’assordante rumore dei clacson, la paura del traffico o l’opacità dello smog. Mi avvolge perciò la piacevole sensazione di spensieratezza e curiosità che provo ogni volta che approdo in un nuovo Paese tutto da esplorare.
Purtroppo la condizione delle strade non è delle migliori, e ogni tanto un asfalto troppo pietroso si interrompe lasciando spazio alla terra e ai cumuli di sassi accatastati ai lati della carreggiata, in attesa di essere lavorati.
Arriviamo a Bagan dopo due giorni di viaggio, con le tute ricche di polvere, ma felici di festeggiare qui l’arrivo del nuovo anno. Con noi c’è anche Allan, il motociclista svedese che avevamo conosciuto in Iran, con il quale abbiamo già condiviso la settimana in Pakistan e qualche breve periodo in India. Sfortunatamente ha avuto un brutto incidente, e attraversa il Myanmar con una mano ingessata e il Tènèrè sul retro di un furgone.
Bagan è un’immenso tappeto di antichi templi immersi nel verde: ogni mattina, all’alba, le mongolfiere sorvolano il meraviglioso panorama, entusiaste di mostrare cotanta bellezza. Nel frattempo i luoghi di culto si affollano di fedeli che, con profonda devozione, si inginocchiano davanti alle statue dorate del Buddha e a innumerevoli scatole piene di banconote. Centinaia di piedi nudi e freddi camminano umilmente verso il luogo sacro. Sui tappeti le donne si fermano a pregare, gli uomini invece vanno avanti, verso il piedistallo centrale dove giace la divinità, che solo al sesso maschile è permesso toccare: regalano un pò d’oro a chi forse ne ha bisogno più di loro…o forse no…
Un giorno di viaggio ci separa da Inle Lake: la strada, curva dopo curva, ci porta fino alle nuvole, basse e plumbee, le quali ben presto rendono l’asfalto pericolosamente scivoloso. Continuiamo la scalata verso la meta e finalmente, dopo tanti chilometri sotto un interminabile acquazzone, arriviamo.
Il lago Inle ospita un agglomerato di villaggi sospesi su palafitte, dove si predilige la fabbricazione (fedelmente tramandata di generazione in generazione) di interessanti oggetti fatti a mano: gioielli, sciarpe di loto, ombrelli di bambù, sigari di banana, ogni abitante ci mostra gli originali prodotti locali in cui da sempre è specializzato. Il vasto mercato centrale, invece, si affolla di oggetti più o meno autentici, di banchi di streetfood e di volti decorati da crema solare.
Solchiamo il lago a bordo di una canoa, sfrecciando tra i gabbiani e la pioggia.
Un’insolita tempesta fuori stagione ci rende nervosi e bagnati, ed è così che arriviamo nella nuova capitale del Myanmar: Naypydaw, la città fantasma. Un’inutile strada a 16 corsie completamente deserta stende il suo tappeto di velluto rosso fino al nostro hotel, tanto lussuoso quanto asettico; attorno, in lontananza, si mettono comodi altri enormi edifici governativi e altrettanti alberghi di lusso; una maestosa pagoda dorata si fa spazio al centro di una città quasi priva di abitanti, ma piena di vanità: Naypydaw non è nient’altro che una megalopoli di cristallo in mezzo alla natura povera e umile. L’unica pura ricchezza che le riconosciamo è la rara specie di elefante albino, con gli occhi di neve e la schiena pallida: ci incantiamo davanti a questi pachidermi di cui neanche conoscevamo l’esistenza...
Un tour de force di strade accidentate ci porta dritti al Golden Rock, uno dei tre templi più famosi del Myanmar: la grande pietra dorata giace in perfetto equilibrio sull’estremità del monte, lasciando in bilico le proprie leggende che segretamente racchiude da secoli. Da qui, ci godiamo l’ultimo tramonto in questo Paese al quale, per colpa delle limitanti regole, abbiamo dedicato troppo poco tempo.
E’ il 5 gennaio, e in un pomeriggio troppo caldo siamo pronti per varcare il confine verso la Thailandia.
Motorbye