L'editoriale di Nico

Nico Cereghini: “Lucchinelli e la V4R ”

- La nuova 1000 non è soltanto una supersportiva da sedicimila giri, ma anche la rivoluzione della storia di Ducati in Superbike. Dopo trent’anni di bicilindriche si cambia, e tutto cominciò con Lucchinelli
Nico Cereghini: “Lucchinelli e la V4R ”

Ciao a tutti! Adesso, viste le novità di Eicma, possiamo immaginare che tipo di anno sarà il 2019 per la moto. Tante case hanno lanciato la loro sfida, e quella che più ha colpito la mia fantasia è la Ducati. La nuova Panigale V4R non è soltanto una magnifica supersportiva mille da oltre 220 cavalli, una meraviglia tecnologica capace di arrivare a 16.000 giri, è soprattutto la quattro cilindri che cambia la storia di Borgo Panigale nella Superbike. Dopo trenta stagioni a due cilindri, trent’anni a giocare contro le quadricilindriche sul filo dei risultati e dei regolamenti, dal 2019 si svolta e ci si allinea alla pari con la mattatrice Kawasaki e tutto il resto della compagnia.


Non sento alzarsi le proteste dei ducatisti più integralisti ed è giusto così: adesso che la Desmosedici è vincente, adesso che probabilmente è la migliore MotoGP, anche i più puri hanno accettato il principio che “se vuoi vincere devi saper cambiare”. Noi tutti non dimenticheremo mai le gloriose bicilindriche che hanno dominato la categoria, la 851 di Raymond Roche e la 888 di Doug Polen, la 916 del primo titolo di Carl Fogarty e poi la 996, e ancora la 999 che per primo premiò Neil Hodgson e la 1098 di Troy Bayliss. Con quest’ultima moto Carlos Checa ha chiuso il ciclo: il titolo 2011 per il team Althea è stato anche l’ultimo per Ducati nella SBK, poi troppe stagioni senza allori. E adesso che si apre una nuova epoca, mi piace ricordare che il primo pilota vincente con la rossa bicilindrica tra le derivate dalla serie è stato il mio amico Marco Lucchinelli da Ceparana (La Spezia).


Marco veniva da tre mediocri stagioni con la Cagiva 500. Dopo il prepotente titolo mondiale 1981 con la Suzuki di Gallina e due anni sulla tre cilindri Honda, deluso e un po’ acciaccato aveva trovato a Schiranna nell’84 un supporto tecnico e soprattutto morale. La moto derivava da una RG Suzuki e non era ancora competitiva, qualche volta si metteva in moto al contrario e partiva in retromarcia, ma Lucchinelli si sa, era un po’ zingaro e si accontentava. Poi i Castiglioni acquistarono la Ducati e il suo marchio nel 1985: l’azienda era asfittica, perdeva parecchi quattrini, sfornava poche migliaia di moto e produceva i diesel industriali per le motopompe e le motozappe, nonché i motori per l’Alfa Romeo. Il quadro era deprimente, oggi si fatica ad immaginarlo, ma i fratelli erano tosti; il trentaquattrenne Lucchinelli fu messo in sella alla 851, vinse la Battle of the Twins di Daytona nel 1987, si iscrisse al neonato campionato. Il 3 aprile del 1988 si disputa la prima gara della storia a Donington, Davide Tardozzi con la Bimota vince gara1 e Marco si impone nella seconda manche. Il campione di quel primo anno, per inciso, fu Fred Merkel con la Honda RC 30 di Oscar Rumi; due anni dopo, con Lucchinelli team manager, fu il francese Raymond Roche a portare a Bologna il primo mondiale della Ducati tra le derivate di serie: in totale quattordici titoli piloti e diciassette costruttori, senza contare i campionati nazionali e la Superstock.


Anche se i tempi non sono facili la Ducati oggi fila a gonfie vele e i tedeschi, di cui molti tra i nostri lettori diffidavano, portando i capitali non hanno snaturato il prodotto e la filosofia. Non ci fossero stati i fratelli Castiglioni e gente come Lucchinelli (e tanti altri che hanno lavorato nell’ombra) chissà, forse a Borgo Panigale si farebbero ancora i motori diesel per le motozappe, e magari Claudio Domenicali –in Ducati dal ’91 quando era un giovane ingegnere- avrebbe guardato altrove e trovato un impiego più lontano da casa. Meno male che è andata così e che il futuro, a cominciare dalla V4R, ci appassiona.

Editoriale Lucchinelli
  • maurizio.martinelli
    maurizio.martinelli, Crema (CR)

    Ottimo articolo, io da ducatista dei tempi in cui non le voleva nessuno e oggi con in garage i sogni di allora che tengono compagnia alla panigalona a 2 cilidri non posso essere che d'accord con Nico.
  • Roberto.Lelli
    Roberto.Lelli, Galliate (NO)

    PRECISAZIONE:

    Quando nel 1988 nacque il mondiale SBK, l’allora organizzatore Flamini commissionò all’Università di Berna (se ricordo bene) uno studio per un regolamento tecnico che equiparasse le potenze specifiche di varie configurazioni di motore al fine di avere un campionato che permettesse ai vari costruttori di poter essere competitivi. Tale studio ebbe come risultato che i motori 4 cilindri non potevano superare i 750cc, i 3 cilindri i 900cc ed i bicilindrici i 1000cc. La convinzione dell’epoca era che un 4 cilindri fosse molto più performante di un 3 od un 2 cilindri di pari cilindrata e quindi ai motori meno frazionati, oltre alla differenza di cilindrata, venne concesso anche un vantaggio di peso. Se per i 4 cilindri il peso minimo era di 162 Kg (se non ricordo male) i bicilindrici potevano arrivare a 145 Kg mentre non ricordo quello dei 3 cilindri. Questo regolamento venne firmato da TUTTI i costruttori. Quello che l’Università di Berna non poté prevedere, e che non era scritto da nessuna parte, fu la capacità di DUCATI di progettare, costruire e sviluppare un motore ed una ciclistica assolutamente VINCENTI. Faccio notare che i primi due mondiali di SBK vennero vinti dalla HONDA RC30 in quanto la DUCATI 851 (che in gara era 888cc) soffrì gravi problemi di affidabilità, mentre il buon Tardozzi cadde all’ ultima gara impedendo alla BIMOTA YB4 (fresca vincitrice del mondiale TT F1 del 1987 con Virginio Ferrari) di vincere la prima edizione del mondiale. Una volta risolti questi problemi la DUCATI che, per inciso, ingaggiava sempre piloti fortissimi al contrario delle case Giapponesi, vinse TUTTO quello che c’era da vincere. Faccio altresì notare che il bicilindrico DUCATI era dotato di iniezione elettronica quando le case Giapponesi correvano ancora con motori a carburatori. La HONDA introdusse l’iniezione elettronica nel 1994 (dopo sei anni) con la RC45, la YAMAHA nel 1999 con la R7 mentre la KAWASAKI, che fu l’unica nel 1993 a rompere il dominio DUCATI grazie al gran pilota Scott Russel, corse sempre con i carburatori fino all’introduzione dei 1000cc. Durante questi anni le cilindrate dei motori DUCATI portati in gara furono di 888, 926, 955, 998 e 999cc (tale incremento fu reso necessario dall’aumento di competitività delle 750 a 4 cilindri) mentre il peso dei bicilindrici salì dai 145 Kg iniziali fino ad arrivare ad essere pari ai 4 cilindri. La DUCATI vinse ugualmente. Tutte queste variazioni regolamentari vennero sempre firmate da TUTTI i costruttori. Finito questo periodo iniziò l’era dei 1000cc per tutte le configurazioni di motore (con delle restrizioni sul sistema di alimentazione dei 4 cilindri) ed il bicilindrico DUCATI riuscì a vincere ancora anche grazie ai piloti.
    Il resto è storia recente.

    CONCLUSIONE:

    Non è colpa della DUCATI se, con le grandi capacità di chi ci lavorava, è riuscita a smentire sul campo un regolamento teorico che considerava il motore bicilindrico inferiore al 4 cilindri (anche a parità di peso e cilindrata). E lo ha fatto ingaggiando sempre i piloti migliori ed investendo in ricerca e sviluppo mentre le case Giapponesi stavano a guardare senza fare nulla. Un esempio eclatante di reattività fu la mossa della HONDA che, stanca di investire soldi e prendere bastonate (la gestione della RC45 costava tantissimo), abbandonò il proprio marchio di fabbrica (il V4) in favore del bicilindrico. Lo fece per orgoglio e riuscì anche a vincere con un grande Colin Edwards. Ma la vera vittoria “ideologica” fu della DUCATI che obbligò la HONDA a fare una scelta epocale.

    MORALE DEL PISTOLOTTO:

    Prima di scrivere frasi come “la DUCATI era favorita, ha barato, mafia Italiana” ecc.. bisogna: o avere memoria storica oppure, se si è troppo giovani per aver vissuto certi periodi, fare una semplicissima cosa… DOCUMENTARSI.

    Saluti
Inserisci il tuo commento