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Dakar 2016. Antoine Meo. “Non ci volevo credere!”

- “Migrato” dall’Enduro ai Rally-Raid, Antoine Meo ha iniziato la sua Dakar in sordina. In costante miglioramento, era sul punto di giocarsi il podio, poi…
Dakar 2016. Antoine Meo. “Non ci volevo credere!”

Due momenti chiave, due attimi sfortunati. Quanto basta per dire addio al podio. Ma è così grave?

«No, non è affatto grave se si considera che stiamo parlando della mia prima Dakar. Gli interrogativi e le questioni in sospeso erano ben altri, all’inizio, ed è inutile piangere sul latte versato, seppure in ben due occasioni, quando è molto più importante essere riusciti ad arrivare e scoprire che ce la posso fare».


I due momenti chiave?

«Il primo già al prologo. Contava poco, e si poteva guadagnare o perdere davvero poco. A meno che… a meno che uno non finisse, come è successo a me e a molti altri, “affogato” nelle acque di un guado. “Trenta centimetri d’acqua”, ci avevano detto al briefing. Altro che! Ci sono finito dentro fino al collo, la Moto ha “bevuto” e ho perso un’infinità di tempo per ripartire. Cose che capitano. Al momento non ci ho dato troppo peso, ma nei giorni seguenti, quando iniziavo ad “ingranare”, il tempo perso il primo giorno ha iniziato a rodermi».


Il secondo “episodio” è più grave, invece…

«Il secondo episodio, come dici tu, è accaduto 15 chilometri appena dalla fine della penultima Speciale. Non ci volevo credere! Avevo già vinto, ero risalito in classifica generale fino a sentire il profumo del podio. Non avevo niente da dimostrare, ma si ha un bel dire che non conta niente, che la prima volta l’importante è finire. Quando sei lì che stai per riuscirci tutto cambia, l’obiettivo diventa chiaro, urgente. 15 chilometri, una curva che non avevo letto sul road book, per me non c’era, la gomma finita, la moto è partita e io ho sbattuto forte in terra. C’ero, sul podio, e cadere alla fine della penultima tappa è davvero brutto. Però, dai, alla fine ho stretto i denti, anche se ne avevo uno spaccato, e mi è andata bene. Son riuscito a finire e sono soddisfatto».


Che impressione fa, cadere in quel modo, all’improvviso e senza possibilità di reagire. Spaventa, ti fa capire che devi stare più attento, o che devi andare più piano?

«No, non è questo. Il caso è particolare e non mi ha spaventato. Quel giorno ero in parte condizionato perché avevo una “missione”. La squadra mi aveva chiesto di stare dietro a Toby che stava vincendo, di proteggergli le spalle e di venirgli in aiuto se mai ce ne fosse stato bisogno. Lui andava fortissimo, e io dietro, forte come lui. Solo che a metà speciale non avevo più gomma dietro. Poi è arrivato Helder Rodrigues, e quando mi ha superato mi son reso conto che doveva avere il traction control, e che quindi, in quelle condizioni, non potevo fare più nulla per tenere il suo passo e quello di Toby. Mi sono arreso a fare la mia gara lasciandolo andare. Poi quella curva stretta… quella caduta stupida, piano, ma che botta!».


Ti è piaciuta la Dakar, il contesto di gara e ambientale?

«Sì, mi è piaciuta abbastanza. Sai, per me era importante finirla. Lo era per me ma sentivo di doverlo ai meccanici e alla squadra. Non conoscendola, la Dakar, ho tribolato più del necessario, ma sono contento dell’esperienza che ho fatto e che mi sarà senz’altro utile in futuro».


E fisicamente, mentalmente, com’è per un cinque volte Campione del Mondo di Enduro?

«Fisicamente è andata benissimo sino a due giorni dalla fine, fino al momento della caduta. La preparazione è stata ben fatta, correttamente pianificata, e non ho sentito alcuna forma di stress fisico. Ero in forma. Certo c’è sempre da lavorare di più. Mentalmente, bene, solo un piccolo caos mentale finché non capisci come funziona tutta la “baracca”, che è veramente complessa. E poi c’è da capire subito che non si può mantenere il livello di concentrazione di una prova speciale di Enduro sull’intero arco di una Speciale della Dakar!».


Che farai adesso?

«Per il momento prima di tutto un po’ di riposo. Poi devo rimettermi a posto perché sono mezzo demolito, denti, punti di sutura, bernoccoli e ematomi. E dopo, vediamo!».

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