Dakar 2020. Paulo Gonçalves. Rischio e impotenza
Wadi Al Dawasir, Arabia Saudita, 12 Gennaio 2020. La lunga Speciale, 546 chilometri, della 42ma edizione, la più triste. Paulo Gonçalves non c’è più. Non qui attorno. Fine della spensieratezza, non potrà più essere una Dakar divertente. Fine del piacere, non della passione libera. Perché il punto è tutto lì. Sappiamo bene che alla Dakar non si dovrebbe mai allentare la tensione e concedersi alla leggerezza. Il pericolo, e di conseguenza la tragedia, sono sempre lì, dietro l’angolo. È umano, tuttavia, tendere a sdrammatizzare, bestiale quando la tragedia ti richiama all’ordine all’improvviso. Ogni volta è un po’ come se fosse la prima. Ogni volta ti senti un po’ scemo. Ogni volta arriva giù come un macigno. Ogni volta credi che la passione non sia poi così giustificata da portarti a mettere sottosopra il mondo, soprattutto quello degli affetti che dovrebbe essere la passione prioritaria. Sì, perché quando uno se ne va non so, ma chi resta va al tappeto.
Passione, comunque, questo è certo. Paulo Gonçalves era un appassionato puro, e vedeva la sua passione anche come un impegno inderogabile, completo. Un lavoro, anche, non meno appassionante e appassionato.
Kevin Benavides, Pilota Argentino. È quello che ha vinto la Tappa del 12 Gennaio. Ha imparato anche da Paulo, hanno corso insieme nello stesso Team fino allo scorso anno, hanno coltivato un’amicizia e rispetto, la passione comune. Poi, un giorno dannato, c’è un punto in cui fatalmente si rompe tutto. Il chilometro 276 della settima Tappa della Dakar numero 42. La passione di Paulo si ferma lì, per sempre. Kevin non riconosce l’amico a terra circondato dai medici. Gli dicono di ripartire e va via. Al rifornimento gli confermano che si tratta di Paulo, e porta le lacrime del dramma dentro il casco, per tutti i chilometri che lo separano dall’arrivo. Kevin piange a parla all’amico che non vedrà mai più. Lo ringrazia per avergli insegnato a sorridere alla vita, per aver condiviso l’amicizia, la passione e dei gran momenti. Giù gas. Kevin vuole dedicare la vittoria all’amico Paulo, essere sicuro di meritare che un angelo lassù continuerà ad essergli vicino. Kevin ci ha raccontato Paulo, in 70 chilometri.
Si è rotto qualcosa, eppure il movente era lo stesso. Vedete come è facile essere potenti nell’entusiasmo e, allo stesso tempo, assolutamente impotenti nello sbarramento alla tragedia.
Rischio e valore
Rischio e valer la pena. È il dilemma eterno e irrisolto. Ogni attività comporta il confronto con il rischio. Alcune di esse sono rischiose per definizione, altre anche solo per circostanze eccezionali o fortuite. Cadere da un tetto mentre si aggiusta un’antenna per una necessità non è la stessa coda che cadere in moto mentre si insegue il massimo della prestazione e un sogno. È diverso il fine, il modo in cui ci si fa prendere dall’imprevisto fatale, il perché ci si è ritrovati ad affrontarlo. È simile, invece, lo strato di impotenza che si stende sulla tragedia.
Differente, ancora, il livello di difesa dal rischio. Su un tetto si dovrebbe andare legati e quindi in sicurezza, in moto a correre nel deserto la sicurezza è una parola grossa, e il progresso in questo senso avanza a passi lentissimi. Non per cattiva volontà, certo, ma per la difficoltà di fronteggiare un fronte così vasto e “indifeso” dall’attacco del pericolo. Tanto è vero che si può morire in moto anche a bassa velocità.
Ne vale la pena? Questa è una trappola. Nessuno può e ha il diritto di dirlo per gli altri. E probabilmente se si parla di sé stessi ogni cosa che si fa è perché ne vale la pena. Leggerezza? Sì, probabilmente anche, soprattutto perché molte volte attribuiamo una grande importanza a cose che in realtà non ne hanno troppa.
Ma se poi una passione inizialmente leggera è diventata la propria vita? Se poi riempie il cuore e la tua vita, e il confort della tua casa e della tua famiglia? Vedi che non è così semplice, non puoi liquidare una vita basandoti su un episodio.
Dunque ne vale la pena. Sì, vale. Ed è una pena, che succedano disgrazie come quella che ci ha portato via Gonçalves oggi.
Paulo andava fortissimo, con tutta probabilità, basta guardare in terra e la sua moto, e quasi certamente è stato tradito da un frangente che non è riuscito a valutare in tempo, o che non ha visto. Si potrà dire che poteva andare più piano, riaccendendo in questo modo il paradosso di contrasto tra l’andar piano e il cercare di essere più veloce degli altri. Paulo non poteva più vincere questa Dakar, eppure stava dando il massimo. Ma questo lo si sapeva, che avrebbe dato il massimo, conoscendolo e dal momento in cui, pur tagliato fuori, aveva cambiato il motore della sua moto nel deserto per poter continuare, per continuare a correre, per tener fede al suo impegno e non tradire la sua passione.
Che genere di obiezioni possiamo avere il coraggio di opporgli?
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Sapete, ho un ricordo che mi fa male, tanto, ma allo stesso tempo significativo per me come pochi altri.
Dopo la tragedia di Sepang, la Famiglia di Marco ha sempre, seppur nel dolore, sostenuto che erano felici per la Vita di Marco, di quello che faceva, di come era entrato nei Cuori di tutti noi, semplicemente perchè era ciò che Amava. Era la Sua Vita.
E allora che dire...resta la rabbia, per la fatalità inevitabile, resta il dolore dell'assenza, ma deve restare la consapevolezza di una Vita vissuta, piena di passione e di Amore per il proprio Sport.
E' triste , molto.
in questi casi il mio pensiero si rivolge alla famiglia, agli amici del motociclista scomparso.
Sicuramente dura da elaborare ma....e' deceduto facendo una cosa che amava, uno sport che era la sua vita, un mondo che era il suo mondo, forse senza quel mondo non avrebbe vissuto a pieno la vita.
Tutti noi motociclisti siamo a rischio, in citta', facendo una gita o un viaggio, eppure quando chiama la vocina dentro di noi, casco e via , si parte.
Un lampeggio a tutti