Alex Bellini, "10 Rivers 1 Ocean". In viaggio per salvare i mari dalla plastica
Alex Bellini ha l’aspetto di un vero esploratore. È slanciato, gli occhi scavati di chi ha visto gli angoli del mondo, e ha una barba che ricorda vagamente quella del Tom Hanks di Cast Away. Ma Alex di un vero esploratore non ha solo le sembianze, ne ha soprattutto lo spirito: uno spirito che, prima di ogni altra cosa, rapisce e incanta quando parla con disinvoltura della tappa iniziale del suo incredibile viaggio. Una zattera, costruita da lui, il Gange da raccontare e una consapevolezza che rimane in bilico, a metà tra la speranza e il pessimismo. E' solo il primo dei dieci viaggi che, nel corso dei prossimi tre anni, lo porteranno alla scoperta dei dieci fiumi più inquinati al mondo. Un viaggio difficile, diverso da tutti gli altri, che Alex riesce a definire in un modo solo: «meravigliosamente orribile».
Alex ha parlato dei suoi primi trenta giorni di navigazione durante l’evento organizzato da North Sails a Milano, che sostiene il progetto "10 Rivers 1 Ocean" fin dalla sua nascita, e che sta combattendo in prima linea la battaglia contro la plastica nei mari.
Come ci si prepara, sia fisicamente che psicologicamente, a una spedizione del genere?
«Mentalmente mi sento pronto da quando sono nato. Sono circa vent’anni che faccio questo tipo di avventure, e credo di essere piuttosto allenato, almeno a livello psicologico. Sul piano fisico invece devo dire che questo è stato il viaggio, tra quelli che ho fatto negli ultimi anni, che mi ha richiesto meno impegno, sebbene il navigare per oltre mille chilometri sul Gange non sia proprio una passeggiata...».
Com’è andata la prima tappa?
«È stata meravigliosamente orribile. Sono partito da Varanasi, nel Nord dell’India, e sono arrivato a Calcutta percorrendo oltre mille chilometri sulla mia zattera. Da un lato è stata una bella navigazione, un viaggio di scoperta che mi ha portato a capire ancora meglio il problema della plastica nei mari. Dall’altro lato, però, non nascondo che ci sono stati dei momenti in cui la sensazione è stata quella di una perdita delle speranze totale. Intorno a me ho spesso sentito che mancavano concetti fondamentali come quello di relazione con l’ambiente. In India l’ambiente è qualcosa di cui servirsi, una risorsa da sfruttare, non qualcosa da rispettare. Nonostante questa sensazione, a tratti davvero pesante, ho cercato di convincermi che anche un singolo tentativo di cambiamento, come può essere il mio, serva per tenere aperta la porta della speranza».
Ma c’è speranza? Il cambiamento è ancora possibile?
«Io sono sempre un po’ pessimista, devo essere onesto, ma allo stesso tempo so che se perdiamo la fiducia allora è finita per davvero. Mi piace molto la metafora del piede nella porta: si sta chiudendo velocemente, e noi abbiamo il dovere morale di metterci un piede dentro e di cercare di far entrare almeno un po’ di luce».
In quest’ottica, come vedi la figura di Greta Thunberg e il nuovo movimento degli studenti da lei ispirato?
«Io credo che ognuno debba fare la propria parte di lavoro: i ragazzi hanno il compito di sfidare lo status quo degli adulti.
Perché di fatto è questo che fanno Greta e il movimento che ha messo in piedi. Il compito degli adulti invece, quelli più potenti e più competenti in materia, è trovare delle soluzioni concrete per risolvere il problema».
Ora il tuo viaggio come proseguirà?
«Tra poco inizierà il lavoro di preparazione per la seconda tappa di "10 Rivers 1 Ocean" che consisterà nell’attraversata del Great Pacific Garbage Patch, la famosa isola di plastica di cui tutti parlano. Tenterò l’impresa con la mia barca a remi, la stessa con cui ho attraversato il Pacifico nel 2008. Di ritorno da questa seconda tappa proseguirò con uno degli altri fiumi sulla lista, che sarà il Mekong, in Vietnam e Laos, o l’Indo in Pakistan».
C’è qualcosa che ti porterai dietro dopo questo mese sul Gange?
«Ci sono stati tanti momenti intensi in questo mese di navigazione in India, ma quello che più mi ha colpito è stato il racconto di alcuni abitanti dei villaggi lungo il Gange. Mi hanno spiegato che i monsoni spesso radono completamente al suolo le loro case ma, finito quel periodo, loro ritornano sugli stessi luoghi e ricostruiscono i villaggi. Lo fanno da milioni di anni, ritornano nonostante tutto, e questa è la resistenza umana. Mi affascina e mi dà speranza».
Che cosa ha significato per te la tua zattera?
«Nel corso della navigazione sul Gange ha assunto i caratteri di un personaggio. Era diventata simbolo di questa avventura, e avrei voluto portarla a casa con me. Alla fine, per alcuni problemi di ordine sia logistico che di costi ho deciso di lasciarla e di donare i singoli pezzi ai pescatori locali. È strano pensare che per costruirla ci siano voluti due giorni e undici persone, mentre per smantellarla sono bastati venti minuti. Ma così è la vita».
di Giulia Toninelli