I Racconti di Moto.it: "Porta una candela"
Le nuvole erano basse e veloci e in certi momenti sembrava di essere il re del mondo, veniva di toccarle e cavalcarle per passare da una cima ad un’altra senza nemmeno prendersi il disturbo di sudare; sì, avrei barattato la mia motocicletta da enduro con una nuvola se Dio me lo avesse chiesto, magari insistendo un po’. Ero stanchissimo e indolenzito, forse la mia moto lo era più di me.
Magari era la quota a quattro cifre ma l’età si sentiva perché ero già ben oltre i sessanta e quando si arriva a questo punto molti di noi dicono basta e vendono la moto oppure ne comprano una più lucida e più costosa, una di quelle che fanno pensare che chi le possiede deve avere o una grande esperienza o un sostanzioso vitalizio in arrivo. No, io niente vitalizio; eventualmente un po’ di esperienza nata con le lunghe passeggiate a bordo della moto di mio papà che stupidamente vendetti molti anni fa per comprare questa enduro che nulla ha in comune con quelle di oggi o con le astronavi da sbarco alieno che vedo in giro con grandi gomme, grandi motori e grandi problemi; ho sempre amato le moto con i raggi e il filo del gas, alle quali aprire “l’aria” per farle respirare quando c’è freddo e non vogliono avviarsi e con lunghe gambe da usare per scalare le montagne per tornare poi a casa con le più belle emozioni delle nostre cime dentro gli occhi. Ho posseduto solo due moto, quella di mio padre e la mia che mi aveva accompagnato in vetta a questa montagna, nel silenzio ventoso delle nuvole basse e veloci.
Lasciai il casco appeso al manubrio e mi allontanai un po’ fino ad arrivare sull’orlo di quel precipizio che visto dal basso sembra una parete verticale. In realtà l’altissima parete è leggermente inclinata verso l’interno della montagna e quando sei lì sopra hai la sensazione di camminare sospeso nel vuoto. Non ho mai sofferto di vertigini e quello non era il buon momento per iniziare, ma Dio onnipotente se era spaventoso! Cinquant’anni a fare su e giù con l’enduro per montagne e colline e non avevo mai avuto il coraggio di seguire la strada di cui mi aveva parlato mio padre, un sentiero invisibile su per le Dolomiti che porta a questo incredibile scenario. Era stata durissima e non solo perché il fisico non era più quello dei vent’anni e la mia moto, nemmeno lei, aveva mantenuto l’agilità di quando uscì dalla fabbrica – che tra l’altro ora non esiste nemmeno più -. Era stata molto difficile perché il sentiero è appena tracciato, irto di ostacoli naturali e a tratti mi veniva in mente che in realtà fosse solo un’idea, una immagine della determinazione degli uomini che vogliono a tutti i costi scalare una cima in motocicletta per sentirsi più in alto e più vivi: mio padre ne parlava come di un segreto che solo gli uomini delle montagne come lui conoscevano e tramandavano ai figli, e manco a tutti: mia sorella Agata, di tre anni più vecchia, non ne sa niente. Mio figlio Enrico, nemmeno lui: io fino ad adesso non l’ho detto mai a nessuno, nella convinzione che il sentiero perduto tra le Dolomiti va raccontato solo a chi ha la sensibilità di custodirlo allo stesso modo di un patrimonio inestimabile o di una bellezza inviolabile dai soprusi di chi intende conquistare il mondo trovando le strade sul gps.
Era una solitaria domenica di agosto troppo lunga da passare, i giorni sembrano interminabili quando ti svegli prima dell’alba e nel letto è rimasto solo l’odore di chi amavi; mia moglie Susanna se n’è andata qualche mese fa creando una voragine in questa grande casa, Enrico vive da molti anni a Milano e non ci vediamo spesso: il più delle volte sono io farmi vivo ma per telefonargli devo aspettare almeno le sette e mezzo, prima c’è il rischio di svegliare te, Mattia, e tutta la vostra famiglia. Senza molto da fare, in estate, col sole che tramonta tardi, non mi restava che accendere la moto e farmi beffe di tutti, dalla forestale fino ai miei coetanei giù in paese a bere grappa e giocare a carte nel bar della piazza.
Ricordo sempre le parole di mio padre quando mi raccontava del sentiero segreto: la strada inizia a valle e parte da dentro una cascina abbandonata dove, nascosto da un finto muro di pietre, c’è un sottopassaggio lungo diversi chilometri; era una galleria usata durante la guerra che termina su uno sperone roccioso emerso al centro di un basso laghetto di montagna, non segnalato su nessuna carta; lì devi fare il guado facendo attenzione che l’acqua non raggiunga il cilindro, poi farti coraggio, tanto coraggio, coraggio da uomini, e seguire il sentiero.
“Da quel punto - diceva mio papà- ci vogliono tre ore, tre ore dove maledirai tutto, dove il motore ti chiederà pietà e la frizione ti minaccerà fumando, dove gli stivali sembreranno gessi e la sella una tavoletta, ti augurerai che non piova, che le camere d’aria tengano e che il fiato regga. Quando sarai a metà strada vedrai sul lato ovest un cumulo di pietre grosse come un pallone, lasciane una pure tu per indicare il tuo passaggio e contale: io ho messo la dodicesima; non sappiamo chi abbia tracciato questo sentiero, forse dei militati durante la guerra, forse l’acqua in primavera, forse Dio”. O forse, pensavo io, i collaudatori di qualche fabbrica di motociclette per testare le moto senza essere visti.
È una fortuna che i cellulari non abbiano campo sulla montagna, perlomeno io la vedo così. Mi sporsi un po’ dal dirupo, le nuvole correvano veloci. La mia solitudine era assoluta, di pietre sul cumulo ne avevo contate diciotto, io avevo messo la diciannovesima: in cinquant’anni solo sette persone avevano avuto accesso al sentiero segreto e tu, Mattia, potresti aggiungere la ventesima pietra. Ti vedo sempre giocare con la moto elettrica, guardare imbambolato quelle vere parcheggiate per strada e quelle poche volte che vieni qui vuoi sempre salire sulla mia vecchia enduro raffreddata ad aria, che per te è un bolide immaginifico; sono certo che saprai sfruttare e ben riporre il segreto del sentiero nascosto. Magari non fare come me, che ho aspettato di non avere che fare una mattina di agosto a quasi settant’anni per andarci; sai, io quasi non ci credevo che esistesse veramente e invece c’è, ed è un posto bellissimo.
Ora ascoltami bene, Mattia: mio papà, tuo bisnonno, mi spiegò bene come salire in cima ma non mi disse come scendere. Per venire giù da una pendenza simile bisogna essere forti perché tenere la moto che sembra precipitare verso valle su un sentiero invisibile è una cosa difficilissima e molto pericolosa, meglio farlo a piedi se non sei sicuro di quello che fai e se la tua motocicletta non è d’accordo con te. Per fare le cose più difficili e impegnative dovete essere uniti, fidarvi l’uno dell’altra senza riserve e dare tutto. Così, quando dopo una buona mezzora passata in cima a godermi il paesaggio delle Dolomiti dall’alto e a contare le nuvole che filavano come proiettili bianchi, capii che era venuto il momento di tornare a casa e di lasciare spazio a qualcun altro, salii sulla moto e diedi un calcio alla leva d’avviamento ma il motore non si accese, ne diedi un altro e poi un altro ancora; feci una breve pausa per prendere fiato poi scalciai fino a rompere la leva. Il motore non si avviò, forse era la candela. La smontai e controllai gli elettrodi, erano neri e consumati da milioni di scintille e mi accorsi che stupidamente non ne avevo portato un’altra di ricambio. Avviare la moto con uno strappo sullo sterrato era impossibile per me e per la morfologia del terreno, molto probabilmente l’avrei schiantata contro qualche masso o stesa e incastrata tra i canaloni senza avere la possibilità di rialzarla integra. Ero fregato, a causa di una candela consumata ero fermo in un luogo dove nessuno avrebbe saputo trovarmi, senza possibilità di chiedere aiuto. Mi sedetti e per la rabbia diedi un calcio al casco che prese la strada sbagliata e precipitò dal dirupo: non lo sentii sbattere né arrivare, sembrò inghiottito dalle nuvole. Pensai che senza fare rumore almeno lui era arrivato a valle e magari mi stava aspettando; oppure aveva preso un passaggio da una nuvola e adesso era diretto verso una delle tante cime che io non avevo ancora visitato.
Avrei potuto scendere a piedi, Mattia carissimo mio piccolo nipote. Ma non ce l’avrei mai fatta e non ne avevo voglia. Pure la mia candela si era consumata; capii che Dio mi aveva proposto un semplice cambio di mezzo: dalla moto alle nuvole. Accettai il baratto e lasciai la motocicletta lì, ringraziandola per tutti gli stupendi anni passati insieme e per i luoghi che mi aveva aiutato a visitare, per essere stata un paziente cavallo a dondolo sul cavalletto centrale nei primi anni della tua vita e per avermi portato fin quassù facendo quasi tutto lei. Poi scelsi una nuvola tra tutte quelle all’orizzonte, la più veloce di tutte, attesi che fosse abbastanza vicina e ci saltai sopra ridendo.
Io sto bene, Mattia, e vorrei che anche voi aveste conforto e sollievo in quest’agosto di piogge, anche se non mi vedete più. Sono su una nuvola e vado veloce ma ora ti chiedo di aiutarmi e di svegliarti e raccontare tutto questo a tuo papà Enrico, con molta calma e senza lacrime: i grandi non sono totalmente stupidi e forse capiranno ma, se non ti crederanno, rimarrai l’ultimo custode del sentiero segreto, fanne buon uso. E porta una candela in più.
mi era sfuggito
...davvero...