I Racconti di Moto.it: "Sessanta volte al minuto"
3… 2… 1… casco in testa, si va in scena.
Arraffai tutto quello che potevo mentre Amanda teneva sotto scacco il tabaccaio con la pistola, finta come le nostre scuse a quelle spaventate vecchiette in attesa di giocare i numeri del lotto; Leonardo fuori a fare il palo, io ripulivo la cassa. Presi anche delle gomme da masticare e delle rotelle di liquirizia da portare a casa.
Il nostro piano era sempre lo stesso: quarantacinque secondi tra l’irruzione e l’uscita dalla bottega del tabaccaio con in pugno soltanto armi fasulle per evitare che un momento di paura diventasse una macchia sulla coscienza, quindi una veloce fuga sulle motociclette per poi spartirci un bottino anoressico dato che oramai la moneta elettronica rendeva desolate e leggere le casse dei negozi.
Per confondere gli eventuali inseguitori fuggivamo usando una moto per ognuno di noi tre; il ragionamento era semplicissimo, punto uno: oggigiorno trovi telecamere dovunque e scivolare via senza farsi notare o riprendere da una di queste spie monoculari è impossibile; punto due: ogni domenica qualcuno organizza un affollato raduno di motociclette perché i motociclisti sentono il bisogno di fare squadra. Punto tre: sfruttiamo questa cosa a nostro vantaggio e dopo la rapina confondiamoci nella folla di motociclisti festanti, spartiamoci il bottino durante la premiazione quando tutti guardano il palco, poi lasciamo le moto parcheggiate e allontaniamoci in treno.
Modestia a parte, l’idea era stata mia; le precedenti rapine avevano sfruttato l’insospettabile copertura dei raduni “Mozzarelle a due ruote”, con l’indimenticabile partecipazione di un nutrito gruppo di ragazze campane con la maglietta bagnata, la “Motoconcentrazione a Molle Scoperte”, dove il caldo era talmente opprimente da indurre le virago convenute a svelare le parti molli e, infine, il caotico “Raduno motociclistico Amici del Vento in Poppa” la cui caratterista foggia della coppa ricordo lasciò di stucco anche i bikers più rozzi e ruttanti.
Tutti i raduni venivano selezionati da Leonardo, bravo con Internet. Leo sfumava la sua corpulenza obesa in una statura da cestista brufoloso nonostante i suoi quarant’anni scapoli; aveva due lauree e un master ai box in attesa utilizzo e più passava il tempo più gli cresceva il bisogno dell’affetto di prosperose professioniste al silicone. Lo conoscevo dalle gare di impennata che facevamo quindici anni fa di fronte al bar della stazione, vinceva sempre lui: Leo è tuttora noto alle forze dell’ordine come “Gaviscon” per l’incredibile quantità di antiacidi ingoiati le cui confezioni abbandonate per terra sono la prova della sua ineffabile presenza nelle scene del crimine. Quando gli dissi che avrebbe avuto la possibilità di provare una moto diversa ad ogni rapina lui non chiese nemmeno quanti soldi avremmo fatto. Si fidava, ecco tutto.
Scelto il raduno, la palla passava ad Amanda: donna senza trucco, né inganno. Conosciuta da me e Leo un paio di anni fa durante l’ora di colloquio settimanale, ci ripromettemmo di vederci quando saremmo usciti. Amanda era totalmente matta, faceva visita a carcerati sconosciuti grazie a mai chiarite complicità nelle direzioni carcerarie. In una di queste visite conobbe me e in un’altra Leo. Enigmatica, di poche parole, con mani grosse come quelle di un uomo a fare capolino da maglie oversize e sotto la cintura gambe snelle e lunghe a cingere la sella di una gloriosa CBX sei cilindri degli anni ’80 che chiamava “la mia famiglia”: due ruote, una sella e sei piccoli fratelli. Amanda selezionava il tabaccaio aperto la domenica mattina nelle vicinanze del raduno, vi faceva un sopralluogo e predisponeva il piano di fuga con le moto. Fu lei a reclutare noi dicendoci che qualsiasi cosa avessimo in mente con lei e i suoi sei fratelli sarebbe venuta meglio, assicurandoci che non saremmo mai più tornati in galera.
Io provvedevo a fornire le motociclette; ognuno ha i suoi talenti, io possiedo quello della persuasione e della capacità di infondere nell’interlocutore fiducia e stima al punto da riuscire a farmi affidare la sua motocicletta per farci un giro di cinque minuti, che diventano dieci, trenta, un’ora, timore, incredulità, angoscia, rabbia e raggiungono l’acme in una denuncia dai carabinieri.
Io, Amanda e Leo possedevamo gli stessi obbiettivi: fare pochi soldi ma farli di frequente e andare ogni domenica ad un raduno di moto perché noi ci sentivamo motociclisti dentro e fare in moto le nostre piccole rapine senza violenza era parte del piacere; a me in particolare rilassava moltissimo arrivare dal tabaccaio in motocicletta, fare i miei quarantacinque secondi da malvivente e godermi un lungo giro fino al raduno. E poi le moto, mica le maltrattavamo: uno dei nostri impegni era quello di non rovinarle, in modo che i proprietari le ritrovassero come le avevano lasciate, anzi meglio: l’idea di danneggiare qualcuno mi disgustava, in effetti rubare la cassa al tabaccaio era un atto criminoso ma sapevamo che a lui non avrebbe nuociuto troppo perché assicurato e magari se fosse stato furbo avrebbe potuto pure ricavarci qualcosa. Avevamo una legge, la nostra, e un giudice, noi stessi, che conosceva un’unica sentenza: l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato.
Il sabato sera avevo consegnato le moto a Leo e ad Amanda, per loro due sportive senza carenatura, una a tre cilindri, una a due. Per me avevo rubato una motocicletta da enduro, ma di quelle che hanno le ruote normali, quelle senza i tasselli, come si dice… le gomme stradali. Non ne avevo mai guidata una prima e già dalla posizione di guida mi sentii carico: se la nostra attività avesse fruttato abbastanza me ne sarei comprata una uguale, ponendo termine alla mia collezione di rottami rumorosi; andai a dormire presto, pronto per la rapina dell’indomani.
Qualcosa andò storto. Al ventesimo secondo della nostra rappresentazione criminale, il copione prese una piega imprevista. Sceneggiatore e regista non ci avevano avvertiti che la parte del tabaccaio era recitata da un pazzo esasperato, un disperato maniaco che eluse la sorveglianza di Amanda puntandole addosso un fucile a canne mozze sbucato da dietro le tende dei biglietti del gratta e vinci esposti a cascata, gridando che era giunto il momento di farla finita con le rapine ai tabaccai. Reagii con tutta la velocità di cui non mi credevo capace e volai sopra il bancone puntando la porta, urlai ad Amanda di scappare e a Leo che il piano era saltato. Le vecchiette erano ancora più terrorizzate mentre tiravo la maniglia, saltavo sulla motocicletta e partivo: quando misi dentro la prima sentii un botto sordo e un urlo, non mi voltai e diedi gas pieno.
C’era un’afa stordente quel giorno di San Giovanni, il cuore impazziva e l’adrenalina mi freddava le gambe. Lasciata perdere ogni prudenza scappai come inseguito dai lupi, rallentai un poco solo quando mi accorsi di essere uscito dalla città e di trovarmi immerso in una pianura silenziosa dove l’unico suono era quello della mia motocicletta.
Respirai forte, respirai amaro, spaventato, deluso, infine pentito. Percorrevo stordito strade sconosciute che Amanda non aveva previsto nel piano di fuga, strade tortuose e tiepide nelle quali smisi completamente di pensare e di preoccuparmi. Mezzo gas, curva, la moto che spinge in solitudine verso la svolta successiva su una leggera salita. Mi accorsi di non essere mai stato così fluido nella mia azione e di non sentire il bisogno di costringere la moto a fare quelle cose umilianti come impennare sfrizionando o bloccare la ruota senza una reale necessità. Veloce, sempre più veloce in una strada che prevedevo curva dopo curva e nella quale mi sentivo estratto fuori dalle svolte da un cavo d’acciaio invisibile; come in un videogioco tutto era sempre più facile, trovandomi capace di spostare il limite e provare quelle emozioni cercate invano quella volta in cui rimediai una caduta e una frattura della scapola.
Probabilmente fu lo shock per l’imprevisto epilogo della rapina, ma cominciavo a godere intensamente di ogni singolo istante che stavo vivendo, un secondo alla volta: con sessanta vite al minuto dove non importa di morire o di farsi male, smisi di sentire il peso del rischio. Ogni secondo facevo un bilancio della mia vita precedente, del secondo passato, e lo trovavo vissuto intensamente a colori vivaci: nascevo, morivo e risorgevo nel tempo di pochi giri dell’albero motore.
Mi accorsi ad un certo punto che stavo andando velocissimo da tanto tempo, sicuramente da molti chilometri, senza provare stanchezza né timori; il fatto che se non avessi trovato presto un distributore sarei probabilmente rimasto senza benzina non era una preoccupazione quanto un precetto che mi tramandavo da una vita ad un’altra. I chilometri scorrevano sotto le ruote della mia moto, con la quale avevo fatto oramai conoscenza e della quale mi fidavo; non ero ancora al livello di Amanda che considerava i pistoni sotto il sedere dei fratelli, ma quasi. Strada e sole, cosa desiderare di più quando sei in moto?
Il sole non si era mosso da quando ero partito. Mi venne un sospetto, uno stupido sospetto, un sospetto che dura un secondo. Mi fermai e tolsi il casco.
Aprii il tappo del serbatoio per vederci dentro. Lo trovai pieno, quasi all’orlo. Esattamente come lo avevo riempito poco prima della rapina. Il sole non si era spostato.
Scesi dalla moto con la vista annebbiata e mi parve di vedere a terra alcune confezioni vuote di Gaviscon. L’emozione mi confuse la vista con l’udito perché vedevo voci allarmate e sentivo la presenza di tanta gente, ma fu per poco: dolorosamente gli occhi ripresero possesso della scena, le orecchie si rilassarono e io mi abbandonai allontanandomi da tutto e da tutti, con il solo cruccio per la motocicletta che non avrei potuto restituire al legittimo proprietario; una preoccupazione inutile e terrena.
Il mio secondo era passato, e non ce ne sarebbe stato un altro. Era stato bello, era stato sapido e divertente; in fondo aveva anche avuto un giusto epilogo e diedi ragione ad Amanda, in galera non ci sarei più tornato.
Sentivo le vecchiette pregare e piangere; le invocazioni di aiuto del tabaccaio investito dai sensi di colpa; Leo, che urlava come un bambino di portarmi all’ospedale; Amanda tenermi la testa come una mamma e implorarmi disperata di resistere ancora un po’, un altro secondo. Un’altra vita.
Complimenti davvero
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