Focus

Circuiti stradali, l'ennesima tragedia

- Robert Dunlop – fratello del compianto Joey - finisce fuori strada a 250 km/h e muore durante la North West 200. Bisogna fermare il gioco?


Non abbiamo la scienza infusa e, di fronte a notizie tanto sconvolgenti, fatichiamo a capire da che parte stia la ragione.
Ci domandiamo però sino a che punto si possa spingere la passione e dove questa non sconfini invece nella irragionevolezza.
Si potrà certo dire che negli sport motoristici il rischio fa parte del mestiere del pilota ed è da quest'ultimo ponderato e accettato. Tutto vero, il motociclismo è e resterà sempre uno sport potenzialmente pericoloso.

Lo sanno i piloti che si sfidano sul filo dei 300 orari, o affrontano le insidie del deserto in tappe massacranti lunghe centinaia di chilometri.
Negli ultimi anni molto si è fatto in tema di sicurezza. Grandi miglioramenti hanno investito gli autodromi e le protezioni dei piloti (l'ultima barriera è l'airbag, che ha già fatto qualche apparizione nel Motomondiale).

Sforzi importanti, che hanno dato grandi risultati. Il tutto è vanificato nel momento in cui si corre sui circuiti stradali, disseminati di trappole letali per i piloti che perdono il controllo del mezzo meccanico.

Il dramma della North West 200
Robert Dunlop
ha perso la vita a causa delle gravissime ferite riportate il 15 maggio durante le prove libere di una competizione classica, la North West 200, che si corre in Irlanda dal 1929 lungo un tracciato stradale di 200 miglia.
In sella alla sua 250 cc, correva sul filo dei 250 km/h quando ha perso il controllo della moto nel tratto Mathers Cross. Il pilota che lo seguiva, Darren Burns, non è riuscito ad evitare l'impatto con la moto di Robert, finendo a sua volta ferito.

King of the road
La notizia ha destato grande commozione nel Regno Unito. Robert era fratello del grande Joey Dunlop, soprannominato in patria "king of the road", vincitore di ben 26 gare al Tourist Trophy (la celebre competizione motociclistica stradale che si corre ogni anno sull'Isola di Man).
Joey  perse la vita nel 2000 in Estonia, mentre correva in sella a una 125 cc da gran premio (nella stessa giornata aveva già vinto le categorie 600 e 750 cc).
Una scivolata, che in pista non avrebbe lasciato traccia sul fisico del pilota, non diede scampo a Dunlop che morì sul colpo finendo contro gli alberi a bordo pista.

Il divieto italiano
Nel 1957 il Parlamento italiano promulgò una legge che vietava le competizioni su strada. Il dibattito fece seguito al drammatico incidente che colpì l'edizione della Mille Miglia di quell'anno.
Il pilota spagnolo Alfonso De Portago perse il controllo della sua Ferrari 355S nei pressi di Goito, nel mantovano.
Il bolide da 400 cavalli, lanciato a oltre 250 km/h, finì la sua corsa tra la folla, provocando una strage. Nove spettatori, oltre al pilota e al copilota (il giornalista americano Edmund Gurner Nelson), persero la vita.
Quella fu l'ultima Mille Miglia agonistica.

Nel primo dopoguerra era prassi correre in sella a potenti motociclette o al volante di autentiche vetture da corsa lungo i circuiti cittadini.
Gli sport motoristici erano agli albori e non c'erano alternative:  tutti i grandi campioni del passato affrontarono le insidie delle piste stradali.

Che senso ha continuare oggi?
I piloti professionisti hanno già dato un'indicazione precisa, rifiutandosi di prendere parte a queste competizioni.


Andrea Perfetti

  • Daf01
    Daf01, Vado Ligure (SV)

    Dunlop

    Mi astengo dal rispondere ad alcuni commenti, perchè non ne vale la pena.
    Ma mi permetto però una richiesta:per piacere, caro Andrea Perfetti,visto che hai la possibilità di scrivere un articolo letto da molte persone, usa la tua libertà responsabilmente ed evita commenti inutili. Questa è una tragedia, e come tale non andrebbe contornata dal consueto moralismo italico che, coincidenza?, tante volte si presenta a cose fatte. Se la questione è: è giusto lasciare rischiare gli altri? La risposta è sì: ne va della nostra stessa libertà e del saper vivere insieme a persone che non sono "io". Andrea,se permetti una domanda, per caso vai in giro in moto nel traffico caotico di una città? O fai alpinismo,paracadutismo o bungee jumping? O vai a vedere dal vivo i rally? O, peggio ancora, fumi qualche sigaretta? Sono tutte cose rischiose e pericolose, ma se ti piacciono e non ledono la libertà altrui PERCHE' andrebbero proibite? Ho paura che in Italia non siamo abituati a pensare che la nostra libertà finisce dove inizia quella altrui, e ciò che a noi non piace non deve per forza essere proibito a norma di legge.
    Un lampeggio.
  • gragne999
    gragne999, Pinasca (TO)

    ha senso

    Solo un vero e grande appassionato lo può capire,cosa vuole dire correre,certo non tutti si possono permettere di correre in pista e questo non giustifica i rischi,ma giù il cappello di fronte a questi PILOTI e a tutti gli appassionati di questo grande spettacolo purtroppo castrato dai media.Evviva queste competizioni e ricordiamoci che se ora abbiamo motogp e superbike è grazie a loro e al loro glorioso passato.Ricordiamoci anche che ci sono molti altri sport pericolosi e nessuno si sogna di sparlare contro,grazie al vil denaro che ci gira intorno e che ciascuno è padrone del destino della propria vita.Quando ci facciamo la nostra bella sparata su strada aperta non corriamo gli stessi rischi o sono anche maggiori visto che altri utenti circolano,molti dei quali non si rendono conto di essere per strada?
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