Enduro: intervista a Jarno Boano
Quando hai cominciato ad andare in moto...
«Uh, difficile da ricordare – esordisce Jarno – mi sembraaaaa – e trascina un po' la a - a tre anni, forse tre anni e mezzo quando ho fatto la mia prima garetta nel fango. Naturalmente ho faticato a fare un giro...con una moto piccola che mi aveva regalato il titolare della Sito, il signor Mollo, forse era una Villa 50, o qualcosa del genere. Ce l'ho ancora a casa...»
Ma non eri ancora tanto piccolo?
«Ma, forse...magari avevo 4 anni e non tre e mezzo ! - scherza - Era una gara vicino a casa, una gara sociale, di minicross nel fango. Io non mi ricordo tanto. Però mi ha raccontato mia mamma che tutti gli altri hanno fatto 5 o sei giri e io sono riuscito nello stesso tempo, a finirne uno. E sempre mia mamma mi ha detto che appena sono arrivato la prima cosa che ho chiesto è stata 'Ma ho vinto la coppa?'. Per me quello che contava era solo quello» – ammette ridacchiando.
Ma dimmi la verità, in sella alla moto ti ci ha messo papà o lo hai chiesto tu?
«No, dai, penso che ..non lo so. Vedo adesso, per esempio, quello che capita con i miei figli: a forza di vedere e sentire parlare di moto alla fine ti chiedono di salirci, è qualcosa di inevitabile. Però credo che la fortuna mia e di mio fratello, Ivan, sia stata il fatto che papà non ci abbia mai spinti, anzi. Appoggiati, sì, tantissimo, ma spinti no. Ci sono aneddoti particolari che mi vengono in mente, mentre parliamo...Uno su tutti. Ero alla mia prima gara di enduro, gli Assoluti – già, ho cominciato da una gara di Assoluti, a 16 anni – e non riuscii a
finirla, mi ritirai. Così dopo due settimane, alla seconda gara, un italiano cadetti, mio padre mi disse che non mi avrebbe accompagnato, non ne valeva la pena, non avevo finito la prima gara e quindi non avrei finito neanche la seconda. Così non mi ci portò ma mi accompagnò un suo amico che correva nell'enduro: partivo per ultimo della mia classe, feci tutta la mia gara, e vinsi. A fine gara telefonai subito a casa e dissi 'papà ho vinto' e la sua risposta secca fu “hai semplicemente fatto il tuo dovere"».
Ah però! E tu?
«Non gli ho più parlato per una settimana. Ma da lì in avanti è sempre stato così. Ci ha sempre appoggiati ma ci ha fatto sempre rimanere con i piedi per terra».
Scusa, ma fra la prima gara a 4 anni e gli assoluti a 16 cos'è successo?
«All'inizio ho fatto un po' di minicross ma l'ambiente a papà non piaceva, c'erano genitori troppo esaltati, così abbiamo cambiato. Ho corso ancora un po' nel cross, poi sono rimasto fermo per un infortunio... diciamo che non sono stato bene verso i 13 e 14 anni. Ma io volevo andare in moto a tutti i costi. Così ho scelto l'enduro, senza mai averlo provato, solo vedendolo sui giornali. Ho cominciato ed in un attimo mi sono ritrovato nel Mondiale, facendo quello che potevo. Ma era il mio obiettivo. Nel 1991 ho fatto il regionale e l'italiano cadetti, perdendo all'ultima gara. Nel '92 avevo già fatto tutto il Mondiale, gli Assoluti, l'italiano cadetti e poi ho continuato fino al 2004».
Quanti titoli hai sulle spalle?
Sorride prima di dire «Non tanti». E poi prosegue con quel suo sguardo un po' sornione: «Ho vinto due campionati senior, uno junior, un cadetti, 2 europei - un 125 e un 250 - e nel 1996 con mio fratello vincemmo lui la 125 e io la 250, e quello è stato secondo me uno degli anni più belli. Poi con la Sei giorni in Italia un Trofeo nel '97, e poi altre soddisfazioni buone, come per esempio nel 2001, quarto al mondiale, risultato migliore degli italiani a livello di classifica assoluta. Sì, direi che sono stati anni positivi».
Che differenza di età c'è fra te ed Ivan?
«5 anni».
Quindi quando lui è nato tu andavi già in moto....sapevi che sarebbe toccato anche a lui prima o poi?
«Con lui è stato un percorso diverso, fino a 12 anni non gli interessava molto la moto. Sì, ci andava ma non era una cosa che lo prendesse molto. Poi ad un certo punto gli è presa la voglia, come in tutte le cose che fa Ivan. Papà ritirò un Fantic 50, un Caballero, già del tipo nuovo, incidentato, e glielo mise a posto, Ivan aveva 14 anni. Abbiamo sostituito tutte le forcelle, ci abbiamo lavorato sopra e lui è andato a fare la sua prima gara di italiano cadetti con una moto che non andava avanti neanche a spararla. Poi su quella moto incidentata ci abbiamo continuato a lavorare tutto l'anno e alla fine lui vinse il Campionato. Però la cosa nacque così e da lì – eravamo nel 1994 – ha cominciato. Nel 1995 ha corso con me nell'Europeo. Addirittura alle prime gare ha corso senza patente – e ride riandando con la memoria a quegli anni. - Non aveva ancora la patente ma girava con il foglio rosa. Allora noi avevamo messo una foto sul foglio e all'estero la facevamo valere come patente. La gente non lo sapeva che non era valida, o che non era la stessa cosa, e lui poteva correre».
Voi avete corso insieme per parecchio tempo, tu com'eri nei suoi confronti, essendo il fratello maggiore, protettivo, prodigo di consigli?
«Ma no, sai....adesso per esempio i piloti cercano di andare ad allenarsi con qualche altro pilota, magari più forte, perchè è importante l'esperienza. Io personalmente ho sempre girato poco con altri piloti ma ho sempre girato tanto con mio fratello. E penso sia stato uno stimolo importante perchè tutti e due andavamo discretamente bene. Girando insieme c'era sempre la sfida fra noi : 'io salgo da lì e tu invece no', o viceversa, Si cercava sempre il limite delle cose, e spesso toccava a me che ero più grande, capire quando fermarsi per non farsi male. Il team per dieci anni è stato Jarno, Ivan e Chicco Muraglia. Ed è stato bello. Chicco ci ha aiutato moltissimo, dal lato sportivo, ci ha insegnato come comportarsi nell'ambiente delle gare e della vita».
Papà Roberto non veniva con voi?
«Papà veniva, ma non sempre. E con il senno di poi forse è stata una fortuna. Lui ci ha sempre appoggiato, però. Nel 1991 quando ho fatto quella prima stagione decisi poi di fare il Mondiale e così lo dissi a papà: comprammo il camper, lo allestimmo, tra l'altro arrivò solo un mese prima dell'inizio delle gare, e lo sistemammo in modo da poterci caricare le moto. Poi papà mi chiamò, io avevo la patente da un solo mese, e in 10 chilometri mi insegnò a guidarlo e mi disse, 'bene, ora cercati un amico con cui andare sulle gare perchè io devo stare a casa a lavorare per pagarti il camper e le gare'. Io partivo ad inizio settimana e lui ci raggiungeva al venerdì, quando poteva. E' sempre stato un rapporto così con papà. Lui diceva io ti sistemo, e in effetti non ci è mai mancato nulla, però anche quando poi sono diventato pilota ufficiale non è mai intervenuto nelle decisioni, solo ogni tanto qualche consiglio che, come tu sai, e so io da buon genitore, il figlio non ascolta mai».
Però nel frattempo papà andava a correre in Africa...
«Infatti, è vero, lui correva, ma devi pensare che tra me e papà ci sono solo 22 anni di differenza e nel 1992 abbiamo addirittura fatto una 6 giorni insieme in Australia. Ma al tempo magari questa cosa non l'avevo apprezzata, chissà forse si poteva viverla in modo diverso, ma a questo pensi adesso che sei più grande....Quando lui c'era, in gara, mi sembrava una cosa strana perchè ero stato abituato a non avere mai i genitori attaccati, ...Pensa tra l'altro che quella 6 giorni lui la finì, ed io no..Immagina quanto me l'ha menata...».
Ma tu quando vedevi lui partire per l'Africa cosa provavi? Volevi andare con lui, eri preoccupato, lo aiutavi?
«Quando partì nel '98 lo aiutammo a preparare la moto. Lo guardavo partire e di sicuro un po' di timore c'era, però sapevo anche che era quello che a lui piaceva fare. Tu stai a casa, durante la Dakar, e non sai bene cosa accade. Ed è poi quello che gli piace fare anche adesso. Se vogliamo fare papà contento lo mandiamo alla Dakar, magari anche a far niente, ma a lui piace stare lì. Penso sia giusto così».
E a te la Dakar? Non ti è mai andato di farla?
«Onestamente mai, mai più di tanto. Quando Ivan decise di farla, due anni fa, fu d'improvviso: una mattina decise di andare alla Dakar...Allora, magari, mi venne un po' di voglia...ma ora sono impegnato su altre cose. Quando vedi i filmati della Dakar, che sono fantastici, ti viene voglia. Mi piacerebbe, ma sono cosciente che ci vorrebbe un allenamento di un certo tipo e in questo momento non ne ho il tempo, ci sono altre cose che devo fare».
Quando hai smesso di correre in moto?
«Nel gennaio del 2005, ho avuto un problema al cuore e i medici mi hanno fermato per un po' di tempo. Più o meno allora ho deciso di smettere e di fare qualcos'altro. Dal 2004 ho messo in piedi un mio team, ed era nato perchè lo volevo mio ed organizzato come dicevo io. Mi trovai nella situazione, conoscendo Beta, di portare avanti un progetto e i medici non vedevano di buon occhio il fatto che ricominciassi a correre. Così presi la decisione, mi dedicai al lavoro e smisi di correre: sono contento di averlo fatto. Io e mio fratello mandiamo avanti l'azienda di famiglia e anche se i tempi sono difficili lo facciamo in modo discreto. Siamo in 11 in azienda, non pochi. Abbiamo un team che corre il mondiale di enduro, dei team che vanno ai rally. Abbiamo una struttura che reputo completa ed abbastanza competente sul campo, grazie all'esperienza».
Un'esperienza talmente importante da portarvi a creare qualcosa...Parlo delle moto nuove, dei kit…
«Su questo lavoriamo tanto, 1- per passione, 2- perchè in anni di esperienza si cerca di mettere questa stessa esperienza al servizio del cliente, di dare un valore aggiunto a quello che facciamo. Quindi sia con la moto d'enduro – quest'anno ne abbiamo fatta una speciale - che con quella da rally, dedicata, stiamo portando avanti un certo tipo di lavoro. Chi ha provato quella da rally ha trovato un prodotto molto valido, e la stiamo migliorando ancora, è in evoluzione e questo ci ha permesso di stringere altre collaborazioni nel mondo dei rally che sono interessanti».
Ti manca andare in modo?
«A ma io ci vado, eh ! A casa certo mi muovo in macchina, la moto da strada non mi piace, ma in moto ci vado: faccio i collaudi delle moto dei piloti, vado a girare con loro. Ogni tanto mi viene voglia di tornare, ma l'idea di tornare e non essere competitivo come prima...no, non lo farei. Se dovessi farlo un giorno sarebbe solo per una soddisfazione personale, e non per dimostrare qualcosa a qualcuno».
Parliamo della tua esperienza, quanto conta oggi con i giovani, penso per esempio a Davide Soreca che hai preso nel tuo team.
«In Davide rivedo un po' mio fratello, e questo mi piace moltissimo, sono tutti e due matti uguali, nel senso buono del termine. I suoi genitori non sono particolarmente pressanti e con lui ho trovato un buon rapporto. Siamo usciti in moto insieme e lui ha capito, almeno penso, che ho una certa esperienza in questo ambiente e si fida di quello che dico, penso si stia instaurando un bel rapporto. A me piace scherzare quando si scherza ma quando si lavora, si lavora. C'è un certo impegno in quello che facciamo, e lavoriamo in un certo modo. Dobbiamo fare esperienza adesso con i 2 tempi, quello che stiamo usando con lui e su cui non avevamo più lavorato tanto. Stiamo crescendo insieme, gli ho detto che per lui questo è un anno di esperienza, non contano i risultati. Se vengono bene, ci fa piacere, ma dobbiamo solo fare esperienza e lavorare bene, così come Deny».
Che ne pensi di Deny Philippaerts
«Dany è un gran lavoratore, come – mi dicono – suo fratello. Conoscendo il papà ho capito il motivo. Quando il meccanico è contento perchè vede che il pilota si allena e fa del suo meglio, io dalla mia parte anche, ma il risultato non viene vuol dire che il risultato è la somma di tante cose: fortuna, esperienza, bravura. Nel mio team il risultato non è la cosa fondamentale; cerco di curare l'immagine, investo un po' di più nei piloti sull'immagine, per dare immagine a loro e al team, e alla mia azienda. Il team adesso mi serve per dare immagine ai prodotti che facciamo noi, non ritengo che il risultato sia il nostro obiettivo principale: ripeto, se viene siamo molto contenti, ci tengo, se Deny fa bene sono molto contento».
Sei un team manager apprensivo quando i tuoi piloti sono in gara?
«Molto, molto apprensivo – e sospira - Infatti spero che mio figlio non decida di correre in moto... però-ammette fra lo sconsolato e il soddisfatto- ci sta già andando...Sono apprensivo, ogni tanto non guardo neanche i piloti in gara. Li guardo quando entrano in speciale e poi quando escono. Perchè so quanto lavoro c'è dietro, so che quando ti fai male il pilota ci sta male perchè deve stare lontano dalle gare, è convinto di buttare via del tempo...so tutto quello che passa nella testa dei piloti. Sono davvero apprensivo».
Quando sei in speciale, a seguire i tuoi piloti, sei estremamente riservato, silenzioso...
«E' il nostro modo di lavorare. Non mi son mai piaciute le scenate, con loro ho impostato che tutto si può risolvere e far delle scenate o del cinema non serve a nessuno e si attrae solo l'attenzione della gente addosso, quando non ce n'è bisogno. Questo è stato l'insegnamento, sempre, di Chicco e io l'ho trasportato sui miei piloti. Quando c'è un problema si cerca di risolverlo. Sono contento che i miei piloti siano così perchè fanno vedere di essere professionali, di essere piloti di un certo tipo. Penso che nessuno abbia mai visto fare una scenata fuori da una speciale da noi».
A proposito di Chicco Muraglia, si può dire che è stato quasi un padre per voi?
«Per me ed anche per mio fratello. Penso che senza Chicco molte cose non si sarebbero realizzate. Forse avrei smesso prima, ci sono state situazioni ed eventi in cui avrei preso decisioni sbagliate. Lui mi ha aiutato, non abbiamo neanche bisogno di parlare, ci basta guardarci. Lui si è sempre fatto in otto per me, senza mai farmelo pesare, e senza mai farmi pesare se era andata bene o se era andata male, se non quando bisognava farlo. Oggi però mi sta diventando un po' arteriosclerotico...».
…e papà invece no?
«Ehhhh – sospira Jarno – anche lui se la gioca. No, scherzi a parte... se uno ha lavorato con Chicco e lo conosce per chi è veramente sa il suo valore che in questo momento – con la mancanza di sponsor – è inestimabile. Per questo va sostenuto dieci volte. Oggi lavoriamo insieme perchè ci piace farlo. Io penso che dopo mia moglie Chicco sia la persona che sento più volte alla settimana, al telefono».
Già, mia moglie, e proprio qui ti volevo, parliamo un po' di Francesca. Da quanto va avanti la vostra storia, anche prima del matrimonio, da quanti anni siete insieme?
«Ehi, non farmi domande a trabocchetto» sorride Jarno. Fa un calcolo veloce e poi dice «mmmhhh, undici anni se non sbaglio (speriamo sia giusto sennò poi mi sgama!, aggiunge). Ci siamo conosciuti per caso e ci ha messo più o meno un anno a capire che io correvo in moto per lavoro, tra virgolette, però, in effetti, ero pagato per far quello. Ci siamo sposati tre anni dopo: oggi abbiamo tre figli e mi sopporta da un bel po'. Mi dà una mano in azienda ed è una presenza molto importante, sono onesto. In famiglia è fondamentale, quando io sono a correre lei è a casa sola con quei tre piccoli satana, perchè sono veramente dei piccoli satana da domare. Sono impegnativi, uno vicino all'altro (6 anni, 4 e 2.) lei lavora con me tutta la settimana e ti dico, non perchè è mia moglie, ma è veramente Grande. Anzi, ti dirò che sono anche un po' geloso perchè a volte chiamano i clienti e mi dicono, vorrei parlare con Francesca, e quando poi scoprono che siamo sposati dicono, 'ah, ma è tua moglie? Bè, dille che è bravissima e gentilissima!».
Domanda finale, pensaci bene, chi era più bravo fra te e Ivan?
Alza le sopracciglia, forse per la domanda diretta, e ci pensa su qualche secondo, riflessivo come sempre: «Lui era molto bravo, anzi è molto bravo perchè ha sempre avuto tanta tecnica. Ogni tanto non usava la testa e forse per questo non ha raggiunto i risultati che poteva raggiungere perchè ha fatto podi al mondiale nell'enduro e nel super motard, cosa non facile. Lui è estroso, adesso si è calmato, ma è sempre stato un estroso...Mah, fai un pari, dai. Io magari ogni tanto sono riuscito a ragionare un po' di più, ma perchè siamo diversi di carattere, anche adesso nel lavoro litighiamo ma alla fine andiamo d'accordo, proprio perchè siamo diversi».
Giusto, chi prende le decisioni sul lavoro?
«Adesso siamo io e lui, i genitori ci sono, ci danno una mano, mamma fa la contabilità, papà ci dà una mano e fa il baby sitter che gli piace tantissimo, e io ed Ivan ci dividiamo le decisioni: io faccio marketing e commerciale, lui si occupa del lavoro e della gestione dell'officina. Ci scontriamo a volte, sulle cose estetiche siamo all'opposto, per esempio, però alla fine tutti e due sappiamo che lo facciamo insieme».
Che sport fanno i tre satana?
«Mia figlia fa danza e nuoto, che le piace tantissimo. Samuli va a calcio e un po' in piscina, e quando può gira in moto. E il più piccolo – ci pensa un paio di secondi – non so...però ha sempre le moto in mano, e la cosa mi preoccupa tantissimo!».
Elisabetta Caracciolo