Direzione Est: Pakistan
Dobbiamo solo raccogliere il coraggio di entrare e la pazienza di sottostare al volere della scorta armata, la quale ci accompagnerà fino all’uscita dal Paese. Per fortuna non siamo soli: insieme a noi la spensierata Tenerè di Allan, un simpatico motociclista svedese incontrato a Kerman. Nessuno di noi nasconde la propria preoccupazione, sia perché le informazioni su quale sarà il nostro destino nei prossimi giorni sono poco chiare, sia perché comunque, inutile negarlo, stiamo entrando in una zona di pericolo.
Stavolta il passaggio doganale da un Paese all’altro risulta abbastanza semplice. Con inaspettata velocità siamo già a Taftan, la città del confine pakistano. Un ufficiale ci dice che i nostri documenti sono in regola e ci chiede di seguirlo. A cavallo di una piccola Honda, si inoltra rapido in mezzo alla polvere, lungo un tratto di strada sterrata, poi si ferma davanti ad un cancello. In pochi secondi il passaggio si apre ed entriamo…in prigione! Siamo nella stazione di polizia di Taftan, e lì resteremo rinchiusi fino alla mattina seguente. Con estremo entusiasmo ci accorgiamo di non essere soli, quattro ragazzi ci vengono incontro calorosamente: Sallah e Riku, due backpacker finlandesi arrivati fin qui in autostop, e Daryl e Deborah, di Malta, anche loro, come noi, in moto. Dopo poco, altre due moto giungono a destinazione: sono William e Giuseppe, due motociclisti italiani in rotta verso l’India.
La stazione di polizia è molto sporca, con servizi che di igienico hanno ben poco. Dormiamo tra l’umido, la polvere e le chiacchiere notturne dei soldati che, diligentemente, vigilano sulla nostra sicurezza. Il giorno arriva presto e in pochi minuti siamo già tutti in piedi, ciò che ci accomuna è la voglia di lasciare quel posto in fretta. Ci mettiamo in marcia, dietro l’autovettura della scorta che non si azzarda a superare i 40 chilometri orari. La scritta LEVIES color verde smeraldo brilla ai raggi di un sole già troppo caldo. Nessuno degli ufficiali parla inglese, e la comunicazione tra loro e noi diventa praticamente inesistente. Uno di loro veste orgogliosamente uno scintillante kalashnikov, che maneggia con estrema disinvoltura, quasi fosse uno stupido giocattolo. Tutto ciò esalta Michele e terrorizza me: chissà se la sicura è inserita bene…
Dopo poco ci fermiamo al primo di quella che si rivelerà un’infinita e snervante serie di check point: non essendoci la disponibilità di un computer dove registrare i dati personali, siamo costretti a scriverli ogni volta sui registri cartacei che ci vengono forniti. Non ci impieghiamo molto a perdere il conto delle volte in cui ci vengono richiesti i passaporti per il controllo, e così facendo diventiamo un’abile squadra di amanuensi. L’arrivo a Dalbandin diventa così estremamente faticoso. Stanchi, affamati e coperti di polvere, arriviamo all’albergo. E’ molto sporco, ma almeno stasera ci vengono concessi un letto e una doccia (fredda).
L’indomani ci svegliamo tra il buio della notte e quello della camera, dove la corrente ha smesso di funzionare. Sospiriamo, convinti del fatto che anche questa sarà una giornata da dimenticare.
Continuiamo il viaggio tra le strade deserte del Belucistan, con qualche biscotto in pancia e tanta rabbia per l’attesa ai check point.
Arriviamo a Quetta dopo il tramonto, assaliti dalla giungla del traffico privo di luci, ma pieno di gente fuori controllo. La strada verso l’albergo sembra una pericolosa corsa ad ostacoli nel buio, e i cambi vettura della polizia non fanno altro che incrementare la difficoltà di raggiungere la meta. Sorprendentemente vivi, giungiamo al Bloomstar Hotel prescelto per noi dalla polizia, la quale ci annuncia ufficialmente la nostra segregazione dal mondo intero: a quanto ci viene detto non ci verrà concesso di uscire dall’albergo privi dell’accompagnamento dei soldati per nessun motivo! Ci chiediamo se tutto ciò sia solo un sistema corrotto da falsi allarmismi, o se il pericolo si nasconda davvero dietro l’angolo. Pieni di dubbi, ci concediamo una cena troppo piccante e ce ne andiamo a letto con lo stomaco che brucia.
Con il consueto estremo ritardo la polizia ci viene a “ritirare” la mattina seguente per scortarci tra gli uffici di Quetta, dove verrà stipulato il NOC, un documento che servirà ad autorizzare la nostra evasione dal Belucistan. Ancora ore d’attesa infinite, passiamo da una stanza all’altra senza ben capire il perché di ogni spostamento o passaggio, fino a che ci consegnano il tanto atteso documento. Siamo liberi? Troppo presto per cantare vittoria. Altri tre terribili giorni di scorta ci attendono.
L’uscita da Quetta non è delle più serene: la polizia si presenta priva di autovettura, costringendo Riku e Sallah a non poter proseguire verso il confine insieme a noi. Con profondo dispiacere salutiamo i nostri compagni, e con un forte abbraccio auguriamo loro buona fortuna. Saliamo in sella con estremo ritardo, causa per cui arriviamo a Sukkur di nuovo nel buio più profondo.
La strada verso Multan è sempre più faticosa e il confine del Pakistan sembra allontanarsi ogni giorno da noi. Continuiamo, chilometro dopo chilometro, il nostro viaggio nella polvere, giocando a fare pericolosi slalom tra i camion vestiti a festa e i sassi lungo la carreggiata. Sono cinque giorni che siamo in questo Paese, e non abbiamo ancora visto gli occhi di una donna.
L’ultimo giorno di prigionia ci porta fino a Lahore, dove finalmente ci liberiamo dai vincoli della scorta e dei fucili. Disarmati, ci dirigiamo nel delirio del traffico in cerca di un albergo e di un pò di tranquillità. Ci vorrà più tempo del previsto per scrollarsi di dosso tutta la polvere e la rabbia raccolte durante questi giorni trascorsi dietro una vettura antiproiettile, che ci ha portato da un confine all’altro oscurando completamente qualsiasi bellezza che un Paese possa essere in grado di offrire. Ricorderemo sempre le confuse tratte cittadine sporche di terra e di smog, prive di tutto, fuorché di sorrisi.