Francesco Loreti: il Kazakistan con la BMW K1200S "Bucefalo"
Fin da bambino ho sempre ammirato Yuri Gagarin, il primo uomo della storia a portare a termine una missione spaziale dopo aver compiuto un'orbita ellittica intorno alla terra volando a circa ventisettemila chilometri orari. Era il dodici aprile del 1961 e per quella storica impresa Yuri partì dal cosmodromo di Baikonour nei pressi del Lago d'Aral, quest'ultimo tristemente famoso per essere praticamente completamente scomparso all'interno di quel grandissimo paese chiamato Kazakistan.
Il cosmodromo di Baikonur è una base spaziale russa che si trova in affitto nel territorio kazaco dal 1996 con una estensione paragonabile alla nostra regione Lazio e prende il nome dalla omonima città che si trova a circa trecento chilometri di distanza.
Fino al 2020, anno in cui SpaceX lanciò nello spazio due astronauti, partivano solo da questo lontanissimo posto sperduto nel deserto tutte le missioni spaziali con equipaggio da quando la Nasa ha interrotto il programma Shuttle nell'anno 2010 e nella estate del 2016 mi si concretizzò la possibilità di poterlo visitare.
Scelsi quindi di andare in Kazakistan con una moto potente, affidabile, confortevole e soprattutto collaudata, alias la mia BMW K1200S da me ribattezzata "Bucefalo" che aveva già macinato ben 350.000 chilometri. Per certi versi si poteva dire che Bucefalo stava già vivendo una seconda vita, da quando il mio amico e meccanico di fiducia Alberto Palma aveva messo le mani al suo motore a "soli" 316.000 chilometei, ma comunque il dover affrontare un viaggio del genere con un due ruote con un chilometraggio del genere non era comunque una cosa comune.
Proprio Moto.it ha voluto documentare con un interessante servizio questo importante intervento su un motore che al momento promette veramente tanto bene e che mi fa veramente ben sperare per quel lungimirante obiettivo che mi sono fissato di raggiungere mezzo milione di chilometri. Dopo una prima tappa a Budapest il secondo giorno ero già a Kiev e poi su dritto a nord verso Mosca per poi discendere in Russia lungo il confine ucraino fino ad Astrakan che si trova a circa cinquanta chilometri dalla frontiera kazaca.
Avendo letto le previsioni meteo sapevo già che l'indomani sarei stato accolto da un caldo torrido ma non avrei mai potuto immaginare di trovare alle dieci del mattino ben 44 gradi e ancor meno mi sarei aspettato di dovermi perdere nella periferia della città per trovare l'accesso ad un fatiscente ponte metallico galleggiante sul fiume Volga, unica via d'accesso al confine kazaco. Giunto alla tanto bramata frontiera in tarda mattinata, grazie anche all'aiuto di una simpatica coppia di russi che mi aveva amichevolmente accompagnato con la loro auto all'ingresso del ponte, entrai finalmente in Kazakistan completamente disidratato.
Cambiai subito del denaro per rifocillarmi e rimettermi in forze e dopo aver fatto una polizza assicurativa all'interno di un attrezzatissimo furgone che, in quelle condizioni climatiche, pareva un gigantesco forno a microonde, mi diressi verso la città di Atyrau che si trovava a soli trecento chilometri dal confine. A parte quel caldo infernale tutto sembrava filare come l'olio fino a quando non feci la sgradevole conoscenza delle strade kazake. Sull'asfalto infatti non trovai delle semplici buche, ma dei veri e propri crateri capaci di inghiottire anche una moto come la mia. In taluni tratti mi venivo a trovare auto e camion provenienti dal senso di marcia opposto addirittura alla mia destra, perché questi erano intenti ad evitare delle enormi buche che li portavano a percorrere involontariamente il margine opposto della carreggiata. Sempre in quell'occasione riuscii a rimanere anche senza benzina e visto che come dice il detto "la dea fortuna è bendata ma la sfiga ci vede benissimo" mi arrivò anche la comunicazione dell'agenzia, da me incaricata per organizzare l'ingresso al cosmodromo, che per un inaspettato problema non sarei potuto più entrare. Gli affascinanti cammelli kazaki con le loro caratteristiche gobbe ricoperta da una fitta criniera mi facevano però da compagnia e con lo sguardo continuamente fisso sulla strada, intento ad evitare le buche che si aprivano qua e là sempre in agguato, ogni tanto mi concedevo un brevissimo sguardo all'orizzonte per contemplare fugacemente i meravigliosi colori del tramonto.
La notte era oramai calata da un pezzo e la stanchezza cominciava a farsi sentire ma non mi persi d'animo e pensai alle parole del grande John Belushi pronunciate in un suo famoso film: "quando il gioco si fa duro...i duri cominciano a giocare!". Mi addentrai quindi in un piccolo centro abitato in mezzo al deserto e proprio quando l'indicatore della benzina segnava la riserva da qualche buon chilometro vidi comparire dal nulla una fatiscente baracca con vicino una vecchia pompa di benzina con su scritto bello grande il numero 92.
Caro Buci a sto giro ti tocca bere la novantadue ottani, pensavo tra me e me, felice di essermela cavata ancora una volta con tanta tanta fortuna. Atyrau si rivelò invece una città particolarmente anonima, situata sul fiume Ural a pochi chilometri dalla sua foce sul Mar Caspio è conosciuta soprattutto trovarsi sulla importante linea ferroviaria Mosca-Volgograd-Uzbekistan.
Pertanto non mi rimase che visitare la moschea più importante della città ed una enorme piazza in cui troneggiava una enorme statua del loro molto amato Gengis Khan. Per i kazaki l'albero genealogico di una persona è importantissimo e l'antenato più importante di tutti è considerato proprio lui, il grande Gengis Khan, tanto che, fino al secolo scorso, l'aristocrazia era formata dalle persone che potevano far risalire le proprie origini fino a lui.
Sapendo che non sarei potuto entrare nel cosmodromo reputai a quel punto inutile raggiungere la lontana Baikonour con l'unico scopo di vedere il vicino lago d'Aral, tra l'altro oramai scomparso. Dovendo poi necessariamente affrontare le disastrate strade kazake sotto un sole cocente optai perciò per una breve ma interessante gita fuori porta da Atyrau di un giorno intero. In quella occasione riuscii a bere il famoso shubat, ossia del latte di cammello fermentato, gentilmente offerto da un simpatico gruppo di giovani pastori che in cambio non mi chiesero del denaro ma solo di fare con loro dei selfie con i loro cellulari.
A quel punto intrapresi il mio viaggio di ritorno consapevole che in fondo quel tanto agognato cosmodromo rimasto per me solo un mero sogno irrealizzabile ha avuto comunque il grande merito di farmi conoscere un paese veramente affascinante come il Kazakistan.
Francesco Loreti