I viaggi dei lettori: Montenegro Motorbike Tango - Ep.6
GIORNO 10 - La dacia del nonno
La dacia del nonno rientra nella categoria cose da evitare in viaggio. A partire dall’ansia che spinge a consultare nottetempo (col piffero che la notte porta consiglio) booking e consimili per trovare una sistemazione acconcia nella prossima destinazione. Che nel nostro caso sono le montagne del Montenegro. Come direbbe anche Catalano, l’ansia è cattiva consigliera, quella notturna può addirittura avere effetti catastrofici. Noi, fortunatamente, ci siamo fermati a quelli indesiderati.
Ma veniamo al punto. Finora avevamo prenotato tutti i nostri pernottamenti sulla base di un itinerario flessibile. Non era onestamente ipotizzabile prenotare tutto, nonostante le rassicurazioni di totale rimborso da parte di booking. Ergo, dopo Cattaro avevamo concordato di lasciare un po’ di spazio all’alea, che in viaggio è sinonimo di avventura. Fatto sta che il ragioniere che alberga in tutti noi (nella fattispecie, il sottoscritto) si sveglia nel cuore della notte e immagina quattro moto e sette bikers che viaggiano tra le montagne del Durmitor a caccia di quattro stanze per la notte. L’ipotesi di prosciugare la carta di credito in cambio di una camera, oppure quella poco gradita di dividersi in tre alberghi, l’immensa rottura di palle di compulsare siti (con una rete oggettivamente debole), di telefonare, di chiedere, e soprattutto l’ansia di non trovare.
Tutto questo, sdraiato nel letto e complice il buio, si ammanta in sfumature di grigio che non saprei oggettivamente contare. Sono meno di 50 ma tendono tutte inevitabilmente al nero.
Ergo che fare? Approfittare del wi-fi di Dujan e cercare una sistemazione. E se l’ansia è cattiva consigliera, la fretta che ne consegue non aiuta nella scelta. Terza cosa: bisogna tenere conto degli standard (in questo caso di ospitalità) del Paese in cui si viaggia. Tra Croazia e Montenegro la differenza è di almeno un punto nella speciale classifica dell’affidabilità delle app per prenotare. Se normalmente vi fidate di un indirizzo con 7,5, in Montenegro (e pure in Kosovo) non vi conviene scendere sotto gli 8,5. E non fidatevi mai delle foto: la casa del nonno prometteva sette posti letto, tre camere e una cucina ben attrezzata che una serie di scatti, compreso il panorama sulla vallata, illustravano omettendo alcuni particolari non irrilevanti.
Nell’ordine: fino alla notte prima quella casa era stata l’abituale residenza di una persona anziana, per noi «il nonno», che, per l’occasione e per i 100 euro garantiti da booking, per una notte si sarebbe trasferito a dormire dal figlio, lasciando la casa senza nemmeno vuotare il cestino della spazzatura, togliere le pantofole dall’ingresso, né cambiare le lenzuola del letto; il divano letto al piano terra era sfondato e in due hanno preferito dormire per terra utilizzando cuscini e coperte per stemperare la durezza del pavimento; le condizioni igieniche dei due bagni, con il bucato di mutande e calzini a mollo nel catino, facevano pensare a quelli dell’Oktoberfest a metà serata. Arredi e stato della cucina meriterebbero un capitolo a parte, ma qui si entrerebbe direttamente in un film horror: mi limito a segnalare che l’interruttore della luce in cucina era stato infilato dentro un pensile insieme a spezie e riso: una scelta dadaista che ha gettato nello sconforto i due architetti che ci portiamo in giro.
Nemmeno loro hanno mai osato tanto.
Schifate dallo squallore e dalle assurdità della dacia del nonno, le ragazze hanno minacciato scelte drastiche, tipo scendere in paese e optare per un banale albergo. Ma l’incertezza sulla nuova possibile sistemazione le ha condotte a più miti consigli: facendo la spesa nel supermercato locale abbiamo approfittato per prendere una bottiglia di whisky per addolcire il fine serata. La strada per arrivare nella valle del Durmitor ci ha regalato emozioni e soddisfazioni, purtroppo la dacia del nonno non è in sintonia con quel che ci circonda: il dramma è stato solo sfiorato E comunque domani si riparte: Cesare per tornare in Italia, noi verso il Kosovo. Ma almeno stavolta faremo molta più attenzione nella scelta della sistemazione.
GIORNO 11 - Kosovo connection
La strada che disegna dolci curve nella foresta di conifere raggiunge la frontiera con il Kosovo. Le aquile della Grande Albania segnano il territorio di questo piccolo Paese dei Balcani che ha raggiunto da pochi anni un’indipendenza fragile come la diplomazia che la sostiene. Per i serbi il Kosovo in quanto tale non esiste. E probabilmente non potrebbe essere diversamente. In queste terre ci sono le radici, i simboli e le battaglie che stanno alla base della Grande Serbia, progetto transnazionale che si è sempre contrapposto specularmente a quello della Grande Albania. Se avete dubbi potete controllare alla voce «battaglia della Piana dei Merli», combattuta il 15 gennaio 1389: da una parte 25 mila uomini dell’alleanza dei regni serbi, dall’altra le forze dell’impero ottomano con 50 mila unità. Voi direte, sono passati 630 anni da quella eroica sconfitta. Invano? Praticamente sì, la battaglia della Piana dei Merli è considerata dai serbi uno degli eventi fondanti della loro storia, alle origini di gran parte del loro sentimento nazionale. La battaglia e la sorte dei cavalieri cristiani divennero il soggetto di molta epica medievale e il principe serbo Lazar venne canonizzato dalla Chiesa ortodossa. Non è un caso che il 28 giugno 1989 Slobodan Milosevic, presidente della Repubblica socialista di Serbia, sia venuto fin qui per celebrare il seicentesimo anniversario della battaglia con il famoso discorso di Gazimestan.
Siamo nella terra di mezzo, contesa tra due etnie che si fronteggiano su tutto: origini, religione, cultura, abitudini. La fragilità di questa nuova entità statale la raccontano i mezzi militari della Kfor, la forza internazionale di pace, che ancora oggi presidia e protegge alcuni punti nevralgici del mondo serbo in Kosovo. Primi fra tutti i monasteri.
L’orgoglio kosovaro è sbandierato nel senso letterale del termine a ogni angolo: cippi, monumenti e tombe sono la narrazione di un’indipendenza guadagnata con il sangue di una guerra di liberazione combattuta casa per casa. Come nel resto dei Balcani le etnie sono distribuite sul territorio a macchia di leopardo. Un mosaico di rivalità ataviche che nessuna cartina è in grado di rappresentare fedelmente. Noi, spettatori neutrali, cerchiamo di non urtare sensibilità che hanno i nervi ancora scoperti.
A Mitrovica, estremità settentrionale del Kosovo, un ponte separa due mondi: da una parte i kosovari di lingua albanese, dall’altra parte i serbi, arroccati sulle montagne che salgono fino a un confine che non riconoscono nemmeno. I monasteri ortodossi sono un’altra enclave serba. I militari italiani e austriaci della Kfor a guardia del monastero di Decani provano a spiegarci che ormai da qualche mese non si registrano episodi gravi, ma le scaramucce sono sempre in agguato: da queste parti non amano gli invasori serbi. E questi luoghi di culto rappresentano gli ultimi baluardi del loro potere.
Noi consegniamo i documenti e varchiamo le mura che circondano il monastero. La presenza, inusuale per noi, delle divise militari, conferisce al tutto un aspetto surreale, ma basta l’invito del pope a visitare la chiesa per farci capire che questo è un luogo speciale, dove da alcuni secoli si coltivano e cullano valori umani, non solamente religiosi, universali. All’interno mille affreschi e 10 mila volti decorano le pareti e catalizzano il nostro stupore. Non sembrano (e non sono) capolavori dell’arte bizantina ma raccontano la storia di un mondo di confine che ai musulmani ha sempre dovuto mostrare la faccia dura e l’orgoglio di appartenere a un regno, quello della Grande Serbia, che ha rappresentato e forse rappresenta ancora oggi in sedicesima (sotto forma di federazione) un fronte tra due civiltà che fanno fatica a riconoscersi.
Questo assaggio di Kosovo mette di fronte a molte contraddizioni. Soprattutto quando raggiungiamo il bazar di Dakovica, pochi chilometri più a sud, e parliamo con i responsabili della moschea locale. Ci raccontano di una ricchezza oramai dimenticata e della povertà diffusa di un territorio in agonia. Anche l’università è testimonianza di un artigianato florido e di un passato di cui i 100 mila abitanti di Dakovica vanno fieri. Ma le attuali cifre dell’impoverimento sono quelle di un esodo cui nemmeno l’indipendenza pare abbia posto una fine. Il Kosovo è terra di contrasti. un ottovolante di emozioni che non lascia indifferenti. L’incontro con un barista simpatizzante dell’Uck che ci mostra le sue foto da giovane, in mimetica e kalashnikov d’ordinanza a tracolla, ci coglie di sorpresa: tanto orgoglio nazionalista spaventa anche un po’ e i nuvoloni all’orizzonte ci consigliano di rientrare a Peje prima dell’arrivo del temporale.
GIORNO 12 - La frontiera che non c’è
Peje non è una città qualsiasi. Sebbene sia in Kosovo è anche la sede del patriarcato di Serbia: il centro di cultura e religione ortodossa più importante dei Balcani. Una sorta di corrispettivo religioso della battaglia della Piana dei Merli. Intendiamoci, questo è un posto di pace, un punto di riferimento per tutto il mondo serbo. Il fatto che si trovi in Kosovo è destabilizzante. E in ogni caso fonte di tensione. Qualche chilometro fuori dal centro, il patriarcato è ora protetto dalla polizia kosovara, ma le monache che vivono all’interno sono prodighe di racconti e di aneddoti. Storie del passato che non sono ancora state metabolizzate dalle coscienze.
Ma Peje ora è anche altro. A dispetto dei due nomi con cui è ancora riportata sulle mappe (Pec, serbo, e Peje, albanese) il centro della città ricorda quello di Tirana. Traffico caotico, marciapiedi per i pedoni inesistenti, e un florilegio di merci accatastate più che esposte sul ciglio di strade polverose su cui Mercedes scassate e camion sgangherati danno vita a un chiassoso spettacolo che ricorda New Delhi. Una passeggiata per le vie del centro è un tuffo negli anni 50: dove gli abiti da sposa fanno bella mostra su manichini dalle espressioni da morgue accanto a motofalciatrici e mastelli di moplen per il bucato. Di quel che c’è non manca nulla, il problema semmai è trovare quel che serve: è la logica del bazar che esce dal suk, ma non fa i conti con il traffico della città.
Anche Novi Pazar, in Serbia, è uno strano posto. È il primo centro abitato che si incontra arrivando dal Kosovo. Noi per la verità ci arriviamo in modo rocambolesco perché, nonostante tutte le rassicurazioni che avevamo avuto a Peje, il passaggio della frontiera, anche per noi con passaporto e carta di identità europei, non è scontato. D’altronde su molte cartine, Google Maps compreso, i confini del Kosovo sono solo tratteggiati, un compromesso grafico per segnalare una frontiera solo doganale perché I serbi non riconoscono il Kosovo come Stato autonomo, ma solo come Stato federato (alla Serbia). Pertanto se siete entrati in Kosovo dal Montenegro, i serbi, che non riconoscono il passaggio in Kosovo (che per loro sarebbe ancora Serbia), non vi lasciano passare. La zelante funzionaria di Zubin Potok sostiene che con il nostro passaporto che riporta il visto del Kosovo, non possiamo entrare, ma esiste pur sempre un barbatrucco, che in questo caso si chiama carta d’identità: in quanto viaggiatori Schengen (trattato riconosciuto dalla Serbia), diventa il nostro lasciapassare per Novi Pazar. Wow! Come per incanto la sbarra si alza.
La frontiera è una rottura (non solo di scatole), un segno di discontinuità che il viaggiatore riconosce lungo il percorso: insegne, cartelli, indicazioni stradali, aree di servizio, marche di benzina cambiano. Qui tra Kosovo e Serbia non se ne ha percezione. La strada che ci porta a Novi Pazar costeggia l’immenso lago di Gazivoda (24 chilometri quadrati di bacino artificiale che costituisce la più importante riserva idrica del Kosovo) a cavallo della linea di confine, ma ben prima di raggiungere la frontiera sui pali della luce che illuminano la carreggiata sventolano le bandiere serbe: il confine reale corre sul ponte di Mitrovica. Anche quando entriamo a Novi Pazar, la sensazione di essere in un altro Paese ci sfiora appena. Le torri dei minareti lungo la strada e la preghiera del muezzin che ci accoglie al nostro arrivo in città ci fa capire l’importanza della presenza musulmana.
Non in tutti i bar né in tutti i ristoranti servono alcolici (e questo rappresenta un problema per la cena); molte donne indossano il chador oppure hanno il capo coperto dall’hijab, ma questo non impedisce loro di passeggiare all’ora dello struscio mano nella mano con ragazze che ostentano minigonne inguinali. Temiamo ritorsioni notturne sulle nostre moto ma questa convivenza pacifica e tolleranza nei costumi ci tranquillizza: sulle nostre moto campeggiano gli sticker che testimoniano il nostro passaggio in Kosovo, non siamo ancora riusciti a recuperare un adesivo serbo. Di più: sulla borsa della mia fa bella mostra l’aquila che campeggia sulla bandiera rossa albanese. Ma a Novi Pazar non guardano così in basso. Per nostra fortuna non danno importanza a questi piccoli feticci da globetrotter.