Viaggi in moto. Tunisia... in parole
Non è semplice descrivere questo viaggio; le sensazioni, le emozioni che si provano in un’esperienza simile sono da vivere più che da descrivere, anche perché, come è ovvio, in ognuno suscitano reazioni molto personali. Di questo viaggio esistono foto e video in quantità industriale, ma a me piace anche comunicare le mie personali sensazioni in parole e cercherò di farlo meglio che posso.
Andare in Africa è come fare un viaggio nel tempo oltre che nello spazio. E spazio e tempo sono proprio i riferimenti che lì sembrano cambiare come la temperatura. Solo che la temperatura sale lentamente all’avanzare verso le latitudini più basse. La percezione dello spazio invece è immediatamente diversa; dovrebbe essere invisibile all’occhio umano, ma appena toccato terra ho sentito che intorno a me c’era un intero continente più grande non solo dell’isola dove ho (quasi) sempre vissuto, ma di tutto il continente europeo. Non so come è possibile, ma è così! Il concetto di distanza è un altro parametro che cambia radicalmente appena realizzi che quello che hai davanti è una distesa interminabile e pianeggiante ad eccezione di qualche catena di rilievi che dolcemente si stagliano sull’azzurro del celo, quasi consapevoli che hanno tutto lo spazio necessario per distendere la loro mole in orizzontale piuttosto che in verticale.
Storicamente nel cammino dell’umanità in qualsiasi parte del mondo, è la costa il luogo degli scambi commerciali e dunque degli insediamenti umani più ricchi ed evoluti rispetto alle zone interne. Man mano che ci si allontana dal mare infatti, mentre il termometro dell’auto (che per la cronaca ha esalato l’ultimo respiro qualche mese dopo questo viaggio. Fortuna che non ci ha piantati lì!!) corregge il numerino al rialzo, il panorama cambia svelando un livello di crescente povertà e un degrado architettonico ancora prima che sociale e culturale. Già, attraversare un paese come la Tunisia produce, nel visitatore europeo, un contrasto forte tra il modo di vivere al quale si è abituati e l’atteggiamento della popolazione che osserviamo. La cosa che sicuramente è alla portata del parziale punto di vista del comune viaggiatore in automobile e che dunque salta facilmente all’occhio, è il comportamento dei tunisini, assolutamente privo delle più grossolane norme di sicurezza come ad esempio: evitare di attraversare disinvoltamente a piedi l’autostrada; non stazionare all’interno dello spartitraffico tra le due carreggiate autostradali col falcetto in mano a raccogliere proprio quella verdura (ovviamente lasciando la propria vettura parcheggiata sul margine destro); non far pascolare le greggi a ridosso della corsia d’emergenza, peraltro non separata dalla campagna da nessun guard rail; non abbandonare bambini che giocano tra la sede stradale e la campagna circostante (che per loro non deve fare tanta differenza); non viaggiare con una dozzina di esseri umani caricati sul cassone arrugginito di un pik-up che, ad occhio e croce, ha conosciuto i fasti di Cartagine; persino le forze dell’ordine predispongono posti di blocco in piena autostrada creando pericolosi rallentamenti.
Ma le percorrenze elevate che copriamo ci danno il tempo di realizzare lo scarto tra i canoni acquisiti nelle nostre menti occidentali e il sottosviluppo che si apre ai nostri occhi critici. Preciso che non si tratta di una affermazione di supremazia della mentalità europea su quella africana, anzi per alcuni aspetti, sono convinto che noi abbiamo sviluppato qualcosa di peggio del sottosviluppo stesso… Ma l’approfondimento di tali considerazioni allungherebbe oltremodo questo articolo di memorie di viaggio, portandolo decisamente fuori tema.
Tuttavia il peggio deve ancora arrivare. Infatti ad un certo punto l’autostrada finisce e si prosegue lungo una strada che sopporta praticamente lo stesso traffico dell’autostrada, ma con delle caratteristiche da cantiere! Ovvero, una lingua di asfalto sufficiente a consentire il passaggio contemporaneo dei veicoli nei due sensi, ma dotata di un ampio spazio circostante di sterrato ai lati di questa stretta carreggiata che può comodamente essere sfruttata ed invasa nei frequenti casi di sorpasso in entrambi i sensi. Ovviamente questo assurdo ed illogico modo di utilizzare lo spazio, produce delle nuvole di polvere alzata dalle macchine costrette a sconfinare, che si scorgono in lontananza suscitando nel guidatore, la speranza che si dissolvano prima di raggiungerle.
Alla fine del lungo avvicinamento al deserto, dopo aver attraversato ormai dopo il tramonto, i piccoli centri ai confini di quello che non si può ancora definire deserto, quantomeno per l’esistenza della strada, della linea elettrica che la segue e di pochissime altre testimonianze umane, si arriva a Douz, meta del primo giorno per noi, e ultimo avamposto organizzato della presenza umana. Ingannati dalle dimensioni gigantesche dei saloni d’ingresso e dall’utilizzo di sfarzosi marmi ovunque, si ha l’impressione di essere in un albergo europeo se non meglio, ma gli arredi modesti delle camere e soprattutto la fragranza incerta e il colore giallastro dell’acqua che sgorga dai rubinetti, chiarisce inequivocabilmente il significato della scritta sullo specchio: l’eau non potable… Siamo ufficialmente e mentalmente sempre più in Africa! Anche la cucina, umile, poco ricercata ma di sostanza, ci proietta più consapevolmente nell’atmosfera africana.
Ma adesso tocca concentrarsi su quello che siamo venuti a fare, bisogna preparare le moto! Le vere protagoniste di questo viaggio. Gli oggetti quasi vivi che accomunano noi pellegrini del deserto nella medesima passione!! Nonostante la stanchezza, addirittura ci soffermiamo a macinare le ultime chiacchere tecniche su ogni moto, o semplicemente ci soffermiamo ad osservarle dopo averle scaricate dai carrelli e allineate con precisione maniacale nel parcheggio dell’hotel. Ma anche solo questo, lì ha un altro sapore!
E’ mattina! Stavolta ci si veste con l’attrezzatura da fuoristrada, trovandola tutta in quel casino di bagagli… Ah già, c’è da preparare anche i bagagli per tutti i giorni che passeremo nel deserto, uffa! Comunque, tra una battuta e una cavolata fatta o subita, finalmente si sente l’avvio del primo motore! Poi il secondo, il terzo e…dai, l’ultima cosa da indossare, i guanti, e… Partenza!!!
Pieni di energie inesplose, conservate a lungo in attesa di questo momento, rimanendo in piedi sulle pedane della moto ufficialmente per iniziare a risparmiare il posteriore dalle imminenti fatiche, ma anche perché l’eccitazione è tale da farci levitare sulla sella, facciamo la nostra parata per le strade di Douz, distinguendoci inequivocabilmente dal traffico quasi incolore di muli, cammelli, carretti, jeep e qualche motorino che affollano le vie. La popolazione è ormai da tanti anni abituata a vedere questa tipologia di turisti che ogni settimana per buona parte dell’anno invade il tranquillo scorrere della vita del centro, ma sopratutto i bambini, al nostro passaggio, che probabilmente è la cosa più interessante che vedranno e vivranno in quel giorno, si scatenano, ci salutano, ci corrono dietro per un breve tratto, ci invitano a fargli vedere un’impennata con quelle moto che loro possono solo sognare: come si fa a negargli anche questo…?
Ancora pochi metri e dopo circa 5 minuti scarsi di marcia la prima sosta obbligata, obbligatissima!! Il rifornimento. Già, prima di abbandonare il centro abitato per almeno 5 giorni, vanno riempiti i serbatoi di macchine e moto, più i serbatoi supplementari per chi ce li ha, più una quarantina di taniche da 20 litri ciascuna per i rifornimenti dei prossimi giorni. Tempo totale? Un’ora circa… Nella quale però non ci si annoia di certo; infatti si iniziano a fare le prime decine di foto, qualcuno (io) torna indietro in albergo a prendere qualcosa che ha dimenticato e ne lascia qualche altra che non ha ricordato nemmeno stavolta, si scherza, si iniziano a delineare i tormentoni che caratterizzeranno tutto il viaggio, non ci facciamo mancare nemmeno i fantastici progetti di qualcuno dotato di spiccato senso imprenditoriale (Massimo e Benni) che azzarda l’intenzione di iniziare un’attività connessa al turismo del genere, acquistando una scuderia di moto da tenere in Africa e da noleggiare ai turisti che sarebbero per questo attratti dalla prospettiva di arrivare alle porte del deserto direttamente in aereo, col casco in mano, per fare un giro sulle dune più alte del mondo, magari in un fine settimana lungo senza sottrarre troppo tempo al lavoro e alla famiglia… Realizzando così anche il sogno degli improvvisati imprenditori del turismo che potrebbero finalmente guadagnare facendo esattamente quello che invece normalmente fanno pagando. La cosa incredibile è che credono sinceramente a quello che dicono! Sono seri! Dopo questa esagerata rassegna di cavolate, seguita da una compilation di vaff..., per fortuna le operazioni di rifornimento sono concluse e si può ripartire!
Per assaggiare la sabbia dobbiamo percorrere ancora qualche decina di chilometri fuori dalla città, durante i quali incontriamo alcuni parcheggi dei cammelli (si proprio così! Per loro equivalgono ai pullman), e dalla pendenza quasi inesistente e dall’unica vegetazione reperibile alla nostra vista, costituita da palme, sembrerebbe di essere a ridosso del mare, che però non si vede perché la spiaggia è molto ampia! Parecchio ampia… infinitamente ampia… interminabile! In realtà il mare è a centinaia di chilometri
Soffia un vento forte e laterale che trasporta la sabbia sull’asfalto, facendolo a tratti quasi scomparire. Le raffiche cariche di sabbia ci investono e, nonostante l’attrezzatura completa, sento i granelli di sabbia aggredire ed infiltrarsi in ogni minima fessura dell’abbigliamento, graffiare le palpebre che tentano di proteggere gli occhi, insinuarsi nel naso e sentirla sotto i denti pur non avendo aperto mai bocca. La luce è stranissima. Forse è un giorno particolare oppure è la sabbia che da all’atmosfera quel colore giallastro ma poco luminoso. Sembra un paesaggio marziano! Tutto questo non riduce minimamente quell’emozione incredibile che mi assale quando lasciamo quell’appena visibile lingua d’asfalto, per introdurci inesorabilmente nelle viscere del deserto! Ancora qualche casa, se così possono definirsi quelle costruzioni di paglia adagiata su dei muretti bassi che gli indigeni usano come abitazione, e si apre davanti ai nostri occhi lo spettacolo della distesa infinita di sabbia mista ancora a qualche ciuffo di vegetazione che sia accontenta di pochissime gocce d’acqua all’anno per sopravvivere.
Con le dovute distinzioni, la cosa che somiglia di più al luogo dove ci troviamo è il mare, solo che non è blu, non è fresco, le onde sono ferme e ci puoi passare sopra con la moto saltando da una all’altra. Divertente da morire!! Ma l’insidia è sempre in agguato, soprattutto prima di prendere confidenza con quel tipo di terreno al quale siamo poco abituati. L’anteriore si affossa all’improvviso, apparentemente senza una ragione, quasi come se sotto la sabbia ci fosse a volte altra sabbia, a volte il vuoto, i cambi di direzione sembrano obbedire ad una logica del tutto anomala, ma col passare delle ore iniziamo a capire come adeguare il nostro stile di guida alle condizioni nuove, creando ben presto quegli automatismi che ci consentono di guidare più disinvoltamente, permettendoci di godere dell’immensità che ci circonda.
La prima frazione di giornata si conclude con il primo pranzo nel deserto preparato dall’organizzazione della guida locale; è tutto inaspettatamente buono e abbondante. Ma la fatica e il caldo si fanno già sentire. Non perché il percorso sia stato straordinariamente difficile, ma perché, essendo stati fino a due giorni prima assuefatti a latitudini caratterizzate da temperature abbastanza rigide, probabilmente l’organismo ha bisogno di tempo per abituarsi ad un luogo dove anche il paraurti di una jeep o persino un filo d’erba diventa essenziale per ripararti dal sole cocente! O più semplicemente, la preparazione atletica inesistente o quantomeno insufficiente al tipo di impegno, fa immediatamente pentire di non averla curata adeguatamente prima di decidere di partire!
I riferimenti delle distanze adesso vanno ritarati su grandezze diverse da quelle della vita civile. Tante ore, tanta fatica, pochi chilometri. E’ l’andatura del deserto. Giunti nel posto previsto per il primo bivacco, stanchi ma soddisfatti dalla prima giornata di moto, con l’immancabile tecnica dell’affondamento della ruota motrice nella sabbia, parcheggiamo le protagoniste attorno a noi. Mentre ci liberiamo di tuta, stivali, casco e quant’altro, risulta difficile metabolizzare la consapevolezza che non esiste una doccia e non ci sarà per molti altri giorni ancora, ma per fortuna, dopo aver montato velocemente le tende, quella sana fame che solo una giornata come questa può sviluppare, fa presto passare in secondo piano la mancanza della doccia e ci vede tutti attorno al tavolo allestito dai tunisini che per noi presto diventerà familiare. Le lampade a batteria illuminano poco, ma non ci vuole luce per vedere e sentire un’atmosfera di amicizia, relax, divertimento, appagamento; per la mente una provvidenziale e bramata fuga da se stessa! Sembra mezzanotte quando i primi decidono di ritirarsi per il meritato riposo seguiti a breve da tutti gli altri, invece increduli ci accorgiamo che non sono ancora le 21:00! Ma ci sembra tutto già magnificamente normale. Prima di entrare in tenda un’ultima occhiata al cielo: mai così stellato come visto da qui, lontani centinaia di chilometri dalle luci della civiltà.
E’ l’alba, la prima alba nel deserto. C’è ancora pochissima luce naturale, e questo rende più riservato l’espletamento delle funzioni fisiologiche all’aperto e la relativa ricerca del luogo più idoneo...ma il pane, quello che i tunisini cuociono sotto la sabbia tutte le mattine è già pronto e caldo: buonissimo con la nutella! Anche l’atmosfera del risveglio dell’accampamento è piacevole e divertente nonostante le urla isteriche di Sergio che ci fa il conto alla rovescia per la partenza.. Ma è uno spasso pure questo. Smontare le tende è decisamente più difficoltoso che montarle, anzi, diciamo che per diversi giorni ci siamo resi conto di non riuscire a fare delle operazioni che una scimmia avrebbe fatto senza difficoltà in un attimo, ma bisogna ammettere i propri limiti, anche quelli che non si pensava di avere…!
Col passare dei giorni, si consolidano in ciascuno di noi i nuovi ritmi, scanditi dall’alternarsi del giorno e della notte più che dall’orologio, conferendoci una rilassatezza mentale che compensa la fatica fisica non indifferente. Anche se il deserto per definizione lo si immagina tutto uguale, ogni chilometro, a guardarlo bene, è diverso dall’altro e il gioco si rinnova ogni volta regalandoci emozioni intense sia quando ci arrampichiamo sulle dune più alte, sia quando attraversiamo alcune distese di terra e sassi assolutamente piatte e delle quali non si vede la fine in nessuna direzione.
Incredibile è in una distesa così immensa, vedere un viandante a piedi solo. Mi viene spontaneo chiedermi da dove viene e dove va, se si è perso, insomma, chi ce lo porta lì! Ma la guida ci spiega che quello, come qualche altro, è un abitante della regione che tutti i giorni, per tutta la vita, attraversa quelle distese di nulla, per procurarsi cibo e acqua. Ed evidentemente li trova… Sgomento dall’abisso che separa lo stile di vita di certi esseri umani rispetto ad altri in base al luogo dove sono nati, penso però che anche lui ha le sue fortune: in mezzo a quel nulla, da solo, a parte il sole, chi può mai rompergli le scatole!!?
Più spesso degli uomini incontriamo i cammelli, anzi, tecnicamente, avendo una gobba sola, sono dromedari e ormai anche per noi europei, sono un elemento consueto del paesaggio.
Chilometri e chilometri sulle dune ci hanno conferito una notevole sicurezza di guida sulla sabbia, ma questo non ci mette al riparo da frequenti cadute (chi più chi meno…), fortunatamente senza gravi conseguenze per noi e le moto. Il salto della dunetta diventa una pratica continua e scontata; divertente, ma…certe volte non finiscono davvero mai!! E gli ultimi giorni se ne ha quasi la nausea… Ma personalmente (e non credo di essere il solo…) il momento più emozionante dell’attraversamento del deserto, è l’avvistamento all’orizzonte di immensi cordoni di dune; imponenti, alte ma a portata di moto, pulite, che sembrano aspettare solo le ruote di chi ha il coraggio di sfidarne la pendenza. Qualche fugace occhiata verso chi suppongo possa avere le mie stesse intenzioni (Benni, il colonnello, Ciccitto, Michele e col passare dei minuti anche gli altri) e via col gas a martello verso l’ascesa mozzafiato della duna!!
Questo momento merita un approfondimento sia tecnico che interiore: infatti l’euforia deve conciliarsi innanzitutto con la scelta ponderata del punto d’attacco, perché da quello dipenderà la riuscita della scalata. Basta sbagliare questa scelta per fermarsi a metà nonostante la potenza della moto, i tasselli della ruota motrice, la marcia giusta e la posizione corretta in sella. Se ti fermi a metà, questo comporta un notevole imbarazzo perché ti obbliga a invertire la marcia per scendere partendo da una posizione instabile sul fianco ripido di una duna dove non si era previsto di fermarsi. In quel momento, la mente umana dell’endurista è sottoposta ad uno stress non indifferente, dovendo innanzitutto perdonarsi per aver posto volontariamente le condizioni per trovarsi in una situazione a dir poco sconveniente e contestualmente trovare in concreto e con rapidità una soluzione plausibile. Lo spirito di adattamento, del corpo, della mente e soprattutto della moto, mi consente di riguadagnare il terreno pianeggiante ai piedi del gigante di sabbia che, sembra sorridere per la sfrontatezza mostrata nel volerlo sfidare. Più stanco e scoraggiato da un lato, ma fiducioso di poter fare tesoro dell’esperienza appena fatta e soprattutto mosso da un’ingovernabile spirito competitivo di negazione della resa, opto con più attenzione per un punto d’attacco più conveniente e senza timore che accelerare troppo possa essere controproducente, stringo il manubrio tra le mani e mordo la sabbia con gli occhi e la mente e si, salgo, volo, sto per farcela, calibro un pelo di meno nel polso destro in vista dell’ignoto oltre la sommità, ma senza esagerare per non venire trattenuto e vai! Sì! Ce l’ho fatta! Ho raggiunto il vertice, sto sovrastando il gigante, l’ho conquistato e sottomesso! Da qui le vertigini vengo neutralizzate solo dall’adrenalina. Mi sento Sir Edmund Hillary quando ha conquistato la vetta dell’Everest, Robert Edwin Peary, il capo della spedizione che ha raggiunto per primo il polo nord, Charles Lindbergh, l’uomo che ha compiuto la prima trasvolata dell’Atlantico, anche se la mia Ktm non assomiglia proprio allo Spirit of Saint Louis…! Insomma, una soddisfazione emozionante e unica!
Ma ben presto la sensazione di dominio si ridimensiona dovendo fare i conti con le cime vertiginose di quelle dune così diverse da quelle del passaggio obbligato scelto dalla guida. Si perché, per chi non l’avesse capito, non era per niente necessario salire fin lassù… Volendo si poteva molto più agevolmente passare da un'altra parte. Era solo per il gusto di farlo! Ma è al momento di scendere che sembra riecheggiare il sorriso sornione del gigante che sembra rimproverarmi di aver cantato vittoria troppo presto. Da qualsiasi parte guardi, non vedo vie d’uscita alternative alla “picchiata” che sarò costretto ad intraprendere per tornare giù. L’alternativa di scendere in diagonale non appare preferibile in quel terreno così malfermo e rischia di peggiorare le cose oltre che prolungare l’angoscia. Bisogna solo prendere coraggio, tirare fuori la grinta e avere fiducia nella propria tecnica, nella forza degli avambracci, nell’assetto della moto, portare il fondoschiena indietro e non fare la cosa che l’istinto di sopravvivenza in quel momento mi imporrebbe: frenare!! La discesa sembra interminabile e sono attimi di vera p-a-u-r-a! Quasi a compensare la splendida emozione dell’ascesa. Ma arrivato giù la paura svanisce immediatamente, lasciando quel gusto di aver compiuto un’impresa solo apparentemente contro una massa di sabbia, ma in realtà la si è compiuta contro le più ancestrali paure che albergano nel nostro inconscio, dandomi l’illusione di essere riuscito a sconfiggerle.
Altre volte i cordoni di dune non si possono aggirare e, magari evitando la zona sommitale, tocca attraversarli anche con le jeep. Questi passaggi comportano un grande dispendio di energie per gli uomini e i mezzi perché qualche affossamento è garantito, quindi pala, sponde sotto le ruote e se non basta ci si affida a “san verricello”! Insomma in un modo o nell’altro, che ci voglia un minuto o un’ora, anche le macchine se la cavano. Questi sono i frangenti in cui, se non c’è bisogno di dare una mano a scavare o tirare, noi motociclisti possiamo godere della leggerezza delle moto scorazzando attorno alle lente e qualche volta impacciate “balene a quattro ruote”. Nell’euforia del divertimento qualcuno (Massimo) riesce nell’immensità delle dune, a centrare una jeep con la scusa che dietro la duna non l’aveva vista… Ci vuole una fortuna con la “C” maiuscola per fare un tamponamento nel deserto!! L’incidente comunque non ha avuto conseguenze.
Riprende a scorrere la terra, i sassi e la sabbia sotto le nostre ruote, mentre la mente ripassa l’esperienza appena vissuta. Ci fermiamo per una delle piacevoli pause in cui mentre ci togliamo i caschi, il gruppo guida, ci da acqua, succhi di frutta a volontà e tavolette di cioccolata che, a dispetto della temperatura, è tutt’altro che sgradita! Sono passati tre lunghi giorni tra le dune e le mani, nonostante i guanti, hanno le vesciche; i piedi e le caviglie 8/9 ore al giorno dentro gli stivali, sono sempre più indolenziti; la schiena, il collo, le ginocchia, reclamano un vero letto… Ma i giorno successivo, come previsto (e non è poco), raggiungiamo la nostra meta: l’oasi di Ain Ouadette.
E increduli, dopo giorni di sabbia, polvere, sudore, caldo ci troviamo immersi un un’acqua pulita e tiepida che sgorga miracolosamente dal sottosuolo. Una sensazione liberatoria difficilmente provata prima o altrimenti riproducibile!! Ci sentiamo di aver fatto qualcosa di straordinario, quasi eroico ed è una sensazione di successo che compensa in piccola parte le frustrazioni quotidiane della vita “normale”. E’ bello sentirsi tra i pochi ad essere riusciti a fare qualcosa che molti, quasi tutti non sono in grado di fare. Ed è bello anche immaginare che probabilmente a quei molti, quasi tutti, sembriamo folli!
La lunga pausa all’oasi volge al termine all’alba del giorno dopo quando, anche senza una riflessione mirata, si fa spazio l’idea della compiutezza del giro di boa. La sensazione è quella di aver finito o quantomeno di aver fatto talmente tanto che non potrà rimanere ancora molto per scendere dalla moto, fare i bagagli e tornare a casa. Errore!!! Valutazione, seppur involontaria, per nulla aderente alla realtà! Il deserto non finisce quando te lo aspetti o quando vorresti e bisogna fare i conti con le condizioni di affaticamento, forse più mentale che fisico, accumulate nelle giornate appena passate. La prima mezza giornata è sfiancante ancor prima di cominciare e nel prosieguo non migliora. Alcune pause coincidono con le soste nei famosi “cafè du desert”: delle capanne dove si può consumare quella disgustosa coca cola americana/tunisina (nulla a che vedere con quella a cui siamo abituati) o sorseggiare un tè caldo. Sono posti fortemente caratterizzati dalla clientela motociclistica che li frequenta. Le pareti interne sono imbottite di firme, adesivi dei viaggi di gruppi passati da questi luoghi negli ultimi 30 anni, foto di illustri sconosciuti e immagini di piloti che hanno fatto la storia della Dakar! E purtroppo anche del mitico Fabrizio Meoni, uno di quei piloti eccellenti che purtroppo ha trovato la morte proprio su una di quelle piste che abbiamo appena percorso, che lui usava come circuito di allenamento. Dopo aver seguito per anni le sue imprese in televisione, non mi lascia indifferente vedere il suo sorriso e il suo sguardo mentre mastico la stessa sabbia, respiro la stessa aria.
Già qui si sente l’atmosfera di itinerari più commerciali e meno impermeabili alla contaminazione occidentale. In questo tragitto incontriamo molte altre carovane di jeep e molti altri gruppi di motociclisti di diverse parti d’Europa. Alcune lunghe chiome sgorganti dai caschi, rivelano una piccola percentuale di centauri appartenenti al gentil sesso. Ovviamente straniere, mica italiane… Come lo sappiamo? Dalle targhe! Loro che ce l’hanno!
L’oasi di Ksar Ghilene, fermata prevista per l’ultimo pranzo prima del rientro, l’avevo già vista tre anni prima e stavolta l’ho trovata decisamente cambiata. Questa è l’oasi dove sostano quasi tutti i turisti ordinari, parchè è la più facilmente raggiungibile ed è la prima che regala ai clienti dei tour operator il sapore e l’odore (sgradevole) dell’oasi africana. Proprio per questo, ha subìto nel giro di pochi anni, una trasformazione che l’ha snaturata per venire incontro alle esigenze del turista medio che vuole andare nell’oasi africana, ma senza rinunciare alle sue comodità! Il business non perdona…! Quindi ci sono sigarette, l’equivalente dei bar, negozietti di souvenir e poco distante un albergo ed un camping. Insomma dell’atmosfera da osasi, è rimasto solo quello specchio d’acqua maleodorante dove si può, volendo, fare il bagno. E infatti qualcuno di noi, ha il coraggio di immergersi in quella pozza fetente!! Si riparte par l’ultimo tratto. Destinazione albergo!
La stanchezza, unita alla deconcentrazione, può giocare brutti scherzi. Non a caso, statisticamente sono proprio le ultime giornate di un moto raid come questo, a registrare gli incidenti più seri. Per fortuna, nel nostro caso, l’unico inconveniente è stato una interpretazione non unanime dell’ultimo tratto di strada che ci ha fatto giungere a Douz con qualche ora di ritardo, ma tutti sani e salvi. E’ ormai l’imbrunire quando improvvisamente, forse perché non ci si voleva illudere ancora, appare la sagoma dell’albergo alla fine di un trasferimento in asfalto sembrato interminabile. E’ un momento straordinario: ci sentivamo davvero degli eroi! E finalmente potevo pensarlo a mente serena, consapevole di poter finalmente allentare la tensione, ma con un piccolo dispiacere che già si affacciava nel cuore nonostante fossi stremato: realizzare che questa avventura unica e straordinaria era finita. Ci stringiamo le mani, ci abbracciamo, ci scambiamo pacche sulle spalle e sui serbatoi delle moto. C’è una certa emozione mentre allineiamo le moto per le foto di rito.
Come il regalo più desiderato, arriva il momento della doccia! La prima doccia dopo cinque giorni di deserto. E’ una sensazione incredibile accorgersi quanto possa sembrare eccezionale una cosa che nella consueta vita civile è talmente ordinaria da non suscitare nemmeno considerazione! La cena di quella sera è trascorsa sull’onda emotiva della soddisfazione della missione compiuta, del tutto ok, del buon umore. Attimi di eterno nei nostri “cuori motociclisti”.
Il viaggio verso Tunisi scorre tranquillo il giorno dopo. Purtroppo, dopo il nostro arrivo al porto, l’allegria è destinata a lasciare il posto alla rabbia per l’inefficienza intollerabile della degradata burocrazia tunisina. Ci siamo sentiti come dei tonni in una tonnara, dove però l’unica via d’uscita è piegarsi alla logica corrotta degli ufficiali che abusano palesemente della loro posizione per arrotondare lo stipendio. L’attesa per l’imbarco, che potrebbe concludersi in mezz’ora, si protrae per più di cinque ore!! Passate prima rimbalzando da un ufficio all’altro per adempiere una procedura assurda, poi incolonnati insieme ad altre decine di macchine per entrare in quella nave. Credo che questa sia stata l’unica nota stonata di un viaggio indimenticabile. L’unica che frena (ma solo per un attimo…!) il desiderio di ripetere una così bella avventura.
Purtroppo le recenti e ancora indecifrabili agitazioni popolari delle regioni nordafricane e mediorientali, che stanno facendo crollare diversi regimi autoritari ed autocratici in carica da decenni in quei paesi, pongono seri problemi alla possibilità di ritornare nel deserto, almeno in tempi brevi. Anche se tristemente, ciò rende ancora più unico il viaggio fatto nel 2010, ma non scoraggia la valorosa compagnia dall’intraprendere altri viaggi in moto con delle valide alternative all’Africa.
Davide Maio
Bellissimo racconto...
Si sente la passione e l'adrenalina tipica di chi viaggia su due ruote.
Non ho esperienze di fuoristrada e tantomeno di deserto, ma leggendo di questo viaggio riconosco un certo dispiacere nel non averci mai provato...chissà, forse un giorno...e comunque complimenti!