Una giornata con i piloti del Racing Team Sky VR46 Moto2 e Moto3
Non starò qui a raccontare quanto sia affascinante, folle, imprevedibile ed energico il Gran Premio d’Italia. E non starò qui, nemmeno, a dire per l’ennesima volta che al Mugello non si dorme, anche perché i primi a non farlo sono loro, i piloti. Non tanto per il baccano che persiste h24, manco fosse l’assistenza clienti di un’agenzia di viaggi intercontinentali, ma per l’ansia, le emozioni, le vibrazioni che il mito del Mugello porta con sé.
Gareggiare qui, nella pista che rappresenta l’Italia nel Motomondiale, significa essere parte della storia di questo sport e poi, per i piloti italiani, le sensazioni sono quasi mistiche. C’è una sorta di timore reverenziale nei confronti di un circuito che mette alla prova le abilità e la mentalità di chi si appresta a correre. A ogni curva la pista sembra dirti “ehi, fino a che punto sei disposto a spingerti?” e poi giù alla Bucine che ti lancia a una velocità supersonica sul rettilineo lungo un chilometro.
Tutto questo immerso nei saliscendi toscani infiammati da 100 mila persone che non vedono l’ora di gridare il tuo nome.
Il Mugello come il Natale
La paura di sbagliare qui c’è per davvero, concreta, palpabile, quella fobia di non essere all’altezza della storia. Si sente forte questo sentimento soprattutto tra i giovani piloti italiani dello Sky Racing Team VR46. Vivere questa atmosfera da pilota per la prima volta, per alcuni, a livello mondiale è qualcosa di incredibile e drammatico allo stesso tempo.
Luca Marini mi racconta, tra un break e l’altro, di come questo gran premio per lui sia un evento condizionante: «Appena finisce la gara del Mugello, penso a quello successivo. Per me è incredibile, fare la Casanova-Savelli e l’Arrabbiata 1 è una goduria. Lo aspetto come se fosse Natale, vorrei ci fosse più spesso come nel CIV, ma forse se fosse così non lo attenderei tanto». Il suo compagno di squadra in Moto2, Nicolò Bulega, sfoggerà per l’occorrenza il suo nuovo nickname “Bubi”. «Lo so che non è aggressivo come Bulegas, ma ormai tutti mi chiamano così per colpa di Migno che per prendermi in giro mi ha dato sto nomignolo. E siccome verranno tutti, amici e parenti, a questa gara ho deciso che era ora di metterlo sulla tuta».
Davanti al Mugello può succedere di tutto, quello che è davvero importante è mantenere la calma e la concentrazione, a volte con l’aiuto dei rituali e della scaramanzia: «Delle volte penso di non essere normale - dice il numero 11 dello Sky Racing Team VR46 - perché faccio delle cose da malato. Ad esempio, prima di salire in moto mi tocco sempre lì sotto per tre volte, mi infilo sempre tutto il calzino destro e poi il sinistro, la tuta la metto sempre da solo. Qui per il Mugello se le posate son storte o non sono allineate, penso che la gara andrà male e mi faccio dei viaggi. È la tensione». Che come per Nico, gioca brutti scherzi in gara.
Pablo è soddisfatto
Durante il weekend Marini e Bulega dimostrano di essere a posto, di avere il passo, di essere veloci. Luca riesce spesso a stare davanti a tutti, ma poi in qualifica chiude sesto, in seconda fila, mentre Nico sfrutta la scia del compagno e chiude al quarto posto in griglia di partenza. Sanno di avere delle chance e di potersi giocare la gara, almeno per il podio.
Pablo (Nieto, il team manager, ndr) è soddisfatto, il team fa sentire il calore ai due piloti romagnoli che hanno dimostrato talento e voglia. Bulega ha fatto segnare il record di velocità a 300,6 km/h con il nuovo motore Triumph e dal pubblico qualcuno urla «finalmente possiamo chiamarti Bulegas, bravooooo», peccato non sappiano che il giorno dopo, quello della gara, diventerà Bubi.
I due piloti della Moto2 sono sempre tranquilli, disponibili coi tifosi e dimostrano di essere già adulti per il modo in cui affrontano il weekend di gara. Atteggiamento diverso da quello di Foggia e Vietti, che sono uno l’opposto dell’altro. Il pilota romano non si vede quasi mai, preferisce stare isolato, concentrato, trovare il modo di non pensare a quello che da lì a qualche ora succederà. Celestino invece gira per il paddock con lo scooter elettrico del team che mostra il suo numero davanti.
Lo vedo da lontano mentre impenna in mezzo ai tifosi che già dal giovedì hanno iniziato a popolare il circuito. Ha un evidente sfregio sul collo, che non nasconde, anzi quasi lo ostenta come a dire “mi faccio male, ma non mollo” e quando qualcuno tra le strade del paddock gli urla «stai attento che ti stendi», lui sorride e stacca una mano dal manubrio mentre continua ad impennare. Pazzo.
«Eh. Qui è speciale...»
Quando gli chiedo che cosa vede se chiude gli occhi e pensa al Mugello mi dice: «Eh. Qui è speciale. Mi ricordo di quando ero piccolo e guardavo le corse, se si esce dall’ultima curva in testa non è detto che si vinca la gara. Si può decidere tutto all’ultimo». Lo abbiamo capito, per andare forte qui serve la carica giusta, serve la stessa carica che c’è sui prati attorno al circuito.
«Io per darmi forza, appena chiudo il casco, mi continuo a ripetere nella testa “Dai Cazzo Cele. Dai Cazzo Cele. Dai Cazzo Cele». Un mantra, un’ossessione, un corto circuito di emozioni. La pressione c’è, ma non per tutti. O meglio, meno rispetto agli altri piloti del team, per Foggia che mi racconta quanto per lui sia rilassante sentir parlare italiano nel paddock. Dennis gira sempre con il suo amico, anche lui di Roma, e quando me lo presenta dice «lui è il mio Uccio, speriamo di essere il suo Valentino». L’autoironia non manca, la voglia di lottare per qualcosa che conta davvero, nemmeno.
Ecco, forse gli manca l’integrazione completa con i compagni di team che, a differenza di Dennis, sono tutti romagnoli o abitano lì, a Pesaro. «Non mi trovo male, ma nemmeno benissimo. C’è il giusto rispetto. Non sono integrato come loro, ma io devo solo pensare a dare del gas».
La griglia per i due piloti del team di Moto3 non è stata positiva come quella di Marini e Bulega, ma sappiamo che la gara, soprattutto nella categoria entry level del mondiale è tutto un’altra cosa. Celestino darà tutto per recuperare dalla 17esima posizione mentre Dennis è convinto di poter fare bene. «La gara è la gara. Son convinto nella rimonta. Mi piace fare le rimonte perché mentre guido canto a voce alta nel casco o mi metto a fischiettare. Preferisco fare una gara pulita, ma se uno mi sportella mi girano. Mi gaso, eh. Però mi girano».
Domenica è un giorno sacro
Domenica è un giorno sacro. Dio si è riposato, il Mugello no. Rumori di tutti i tipi infestano i colli che circondano l’asfalto, i cordoli provano a proteggere i piloti dal rumore, ma è impossibile. La concentrazione prende vita, sembra quasi di percepire un’essenza a fianco a loro, come fosse un’anima che li ricopre di un’energia che solo chi ha visto i cartoni animati giapponesi degli anni Novanta può immaginarsi.
Foggia e Vietti sono in pista, lontani dai semafori, quasi da chiedersi se riescono a vederli. Il sole batte forte sulle visiere, che da lì a poco si chiuderanno e inizieranno a sentirsi addosso il fiato dei piloti che dentro i loro caschi sputano adrenalina.
La gara inizia, i polsi destri dei piloti iniziano a stringersi attorno alle manopole e a tirare verso l’alto. Lì non è questione di forza, ma di sensibilità. Solo chi sa dov’è il limite può puntare a raggiungerlo.
Uno dopo l’altro Vietti e Foggia riescono a districarsi tra gli avversari, sono veloci, giovani e affamati. Negli ultimi giri sembra di essere in una centrifuga, i piloti si scambiano le posizioni senza quasi un criterio.
Alla fine la spuntano due italiani e va bene così, partivano avanti e ci davano come dei matti ma comunque un romano e un piemontese se la sono cavata. Foggia chiude quinto tra i complimenti del team. Pablo lo guarda e gli strizza l’occhio, come a dire “non devo dirti niente, tu già sai tutto”. I meccanici lo abbracciano, il risultato migliore che si poteva aspettare partendo così indietro.
Serve un cuore con la C maiuscola
Guardare da fuori la pista del Mugello vuota ti da quella sensazione di impotenza, di enormità, di genialità e sentimento, di scienza e di cuore, di tecnica e di naturalezza, di ragionamento e cuore. Cuore, con la C maiuscola, è quello che serve per correre qui. Perché quando esci dalla Bucine ai trecento e scollini sul dosso verso la San Donato, se non hai fegato, se non ami i brividi lungo la schiena e non godi se non te la fai un po’ addosso, allora non hai capito niente.
La pista è la stessa dal 1974 e guai a chi la tocca, nonostante qualche accusa di “pericolosità”, figlia anche delle elevate velocità a cui arrivano i piloti (soprattutto quelli della MotoGP).
Ma se ci pensi prima sei spacciato. Luca ama questa pista e vuole ritrovare quello che ha smarrito all’inizio di questa stagione, risultati e continuità. Forse non ha il passo dei primi ma mentre lotta, nel suo box i componenti del team stringono forte le mani, che sudano freddo, e bagnate si asciugano sulle loro polo nere.
I nervi saltano quando il numero 10 stacca un metro dopo, perché come ha detto Celestino prima della gara «per andare forte qui devi frenare tardi, lasciarla scorrere e uscire in un attimo». Vero, ma quando scendi di botto e stacchi così tardi da dover fare una preghiera al volo dentro il casco e sperare che i freni ascoltino e reggano - è vero che è Domenica - non sempre tutto fila liscio. Invece, la gara del Maro è da matti. Recupera terreno e sorpassa tutti fino a conquistare il secondo posto. Alex Marquez è vicino, ma non abbastanza. Oggi va bene così.
Bandiera a scacchi
L’emozione sgorga nel sudore quando Maro attraversa il traguardo. Le bandiere sventolano, il team inizia a fare festa nel box per poi andare ad abbracciare lui, il regista, il leader di un gruppo che punta anno dopo anno a migliorarsi e a fare sempre meglio, Pablo Nieto che sorride e con gli occhi pieni di orgoglio stringe forte i meccanici di Luca.
Il giorno prima, dopo le qualifiche, mi aveva raccontato di quanto si sentisse come un fratello maggiore per i suoi piloti: «Io provo a fare quello che a me è mancato quando correvo. Cerco di essere un team manager che fa stare tranquilli i ragazzi e che tenta di farli esprimere al loro massimo. Questo è uno sport solitario, certo. Ma il team deve cercare di donare al pilota tranquillità e sicurezza in se stesso. Alla fine, è come se fossi uno psicologo. Però c’è sempre da rimanere umili, anche io posso sbagliare, come il pilota, come il meccanico. Ma tutti insieme dobbiamo riuscire a sistemare gli errori. È vero sono un po’ il fratello maggiore, ma sono anche il loro capo. E nonostante ci sia un ottimo rapporto tra di noi, ci sono delle regole e dei paletti. Uno su tutti, il rispetto. Questo non deve mancare mai, non mi interessa che vadano d’accordo tutti, mi interessa che si portino rispetto».
Intanto tutti corrono verso il parco chiuso a godersi Luca Marini sul secondo gradino del podio. Le trombe tuonano, il tifo urla «Maro, Maro, Maro» mentre qualcuno accanto a me gli ricorda che questo è solo l’inizio. Lui è là in alto che guarda tutti, si emoziona anche se è bravo nascondere tutto, si gode lo Champagne, i festeggiamenti e adesso? Adesso la testa è già al prossimo anno, al prossimo Mugello, come ha detto Luca. Ma Pablo non sarebbe un vero fratello maggiore se non dicesse le cose giuste quando bisogna dirle. «Goditela, ma poi testa a Barcellona» perché sarà importante trovare la giusta continuità, è un attimo fare un passo indietro, giù dal podio. Perché è vero che come ha detto Pablo «a noi dello Sky Racing Team VR46 piace vincere», ma è vero anche che un podio al Mugello è come sognare ad occhi aperti, vedere il paradiso e poterlo raccontare, essere per un istante più forte di tutto, delle emozioni, dello stress, della tensione. E adesso testa a Barcellona. No dai lasciamoli sognare ancora per un po’.
Testo: Fabio Fagnani
Foto: Milagro
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Strijbos, Alessandria (AL)Bello!!