Ingmar Stroeven, Arai Europe: “Le omologazioni devono essere solo l’inizio”
Il lancio di un nuovo casco, soprattutto se al top della gamma, è un evento quasi epocale per Arai. Normale quindi che alla presentazione dell’RX-7V all’Isola di Man fosse presente lo stato maggiore di Arai Europe, soprattutto nelle persone di Akihito Arai e Ingmar Stroeven, che condividono la carica di Managing Director per l’emanazione europea della Casa di Omiya.
La filosofia che spinge Arai fin dalla sua nascita (ad opera di Hirotake Arai, nel 1937) è piuttosto semplice: offrire la miglior protezione possibile, senza scendere a compromessi. Hirotake, come ci ha raccontato il nipote Akihito, era un motociclista appassionatissimo. Tanto appassionato da intraprendere in moto il viaggio da Tokyo a Kyushu (oltre 3.000 km) nell’immediato dopoguerra, con le strade e i mezzi disponibili all’epoca.
Ritenendo inadeguata la protezione offerta dai caschi dell’epoca, Hirotake Arai nel 1952 diede il via alla produzione di caschi per proteggere sé stesso ed i suoi amici, forte dell’esperienza della sua azienda che fino ad allora costruiva caschi per la protezione degli operai nei cantieri. Mancava infatti l’esperienza specifica, a cui Hirotake sopperì con le conoscenze generiche e ad un lungo processo di trial & error, prova ed apprendimento dai propri sbagli. Da lì a mettere in piedi una produzione in piena regola il passo è stato breve, senza però che venisse meno la fedeltà al principio ispiratore originario.
L’obiettivo primario della produzione non è il puro profitto, ma la protezione dei piloti e dei motociclisti. Una filosofia che vive ancora adesso in Arai, dove tutti i caschi sono in gran parte prodotti a mano, e dove l’azienda – ancora di proprietà della famiglia, senza azionisti a cui dover rendere conto di profitti e costi – continua a lavorare secondo canoni senza tempo.
Il collegamento con la moderna realtà di Arai viene da un interessante parallelo messo sul tavolo da Ingmar Stroeven, che cita i test nel mondo reale come bagaglio d’esperienza insostituibile per Arai.
«La maggior ricchezza di Arai sta nel suo bagaglio di esperienza agonistica. Sono passati infatti quarantacinque anni da quando Wes Cooley è diventato il nostro primo pilota a vincere una gara negli USA, e da allora abbiamo accumulato una quantità di dati incalcolabile. Le gare sono infatti il miglior test: i piloti, per definizione, cercano il limite dei loro mezzi – inevitabile che siano anche quelli che li superano e cadono. Il fatto che queste cadute avvengano in condizioni controllate, e soprattutto quasi sempre oggetto di riprese video, fa sì che noi si possa analizzare le dinamiche d’impatto, registrare dati e portare avanti il nostro sviluppo di conseguenza».
Un modo di lavorare che non prescinde dagli standard esistenti, ma che li ritiene porte d’ingresso, livelli di protezione minimi da rispettare.
«Non ci fraintendete: è fondamentale che esistano omologazioni e standard. Sono uno strumento indispensabile per garantire il consumatore su ciò che sta comprando: non deve essere possibile svegliarsi domattina ed iniziare a produrre caschi non protettivi vendendoli alla stessa stregua di strumenti pensati e sviluppati secondo canoni di sicurezza».
«Il punto è un altro: i nostri caschi passano i test perché proteggono, non il contrario. Pensateci un attimo: l’omologazione ECE simula un impatto a 27km/h – vi sembra una velocità realistica? La nostra risposta è che i test devono rappresentare un minimo indispensabile, su cui poi costruire una protezione sempre più efficace. Se si cerca solamente di superare i test si finisce per limitare le proprie possibilità di evoluzione. Quindi certo, ovviamente sfruttiamo standard e test codificati per immettere sul mercato i nostri prodotti, ma riteniamo che le responsabilità di un produttore vadano molto oltre il punto di partenza che questi rappresentano».
Una posizione supportata dall’esperienza accumulata nel mondo reale, dove si vedono incidenti che vanno ben oltre quelli simulati dai test.
«La tentazione di produrre caschi più leggeri e comodi, concentrandosi solo sui punti interessati dai test, è chiaramente molto forte per tutti nel momento in cui questi elementi diventano selling points decisivi. Noi sinceramente non crediamo in questa filosofia, perché non riteniamo che si possa sacrificare la protezione per vendere qualche casco in più. L’esperienza del mondo reale mostra che i caschi impattano più volte per terra o contro diversi ostacoli, possono venire penetrati da oggetti appuntiti, condizioni che i test ECE non riflettono limitandosi a provare impatti su punti prestabiliti. Il 90% dei caschi che vengono analizzati dopo le cadute dei nostri piloti – perché li studiamo tutti, nessuno escluso – mostrano per esempio impatti nella zona posteriore del cranio, una zona completamente trascurata dagli standard omologativi attuali. Per questo crediamo tanto nel test SNELL, che si limita a tracciare una linea sopra la quale avvengono la stragrande maggioranza degli impatti: un casco deve resistere ad un impatto ripetuto ovunque sopra quella linea».
«Vi faccio un altro esempio: il test ECE, come dicevamo, prova impatti pari ad una collisione a 27km/h. E’ evidente che tale impatto sia poco realistico, ma per contro siamo i primi ad ammettere che non esiste alcun casco, nemmeno i nostri, che possano resistere se l’impatto diretto avviene a 100km/h. Però, come chiunque è in grado di constatare, in gara si vedono piloti che si rialzano dopo botte per terra a velocità ben superiori, perché l’energia cinetica viene scaricata, glanced off, prima di essere assorbita. Una condizione indispensabile per offrire una protezione affidabile, che cerchiamo di perseguire con le nostre calotte».
Perché un casco favorisca infatti questa dispersione, e limiti quindi al massimo le energie da assorbire, la calotta deve essere studiata appositamente.
«La forma della calotta dev’essere liscia, per scivolare il più possibile. Noterete che tutte le appendici che usiamo sono incollate sul casco in maniera che si stacchino in caso d’impatto e non inneschino alcun movimento o rotazione, come per il frontino del Tour-X, per esempio. In secondo luogo la sagoma dev’essere il più possibile tonda, per lo stesso motivo: le linee con tratti squadrati sono affascinanti, ma si prestano a fare scalino, ad innescare movimenti indesiderati. Infine, crediamo sia indispensabile che la calotta sia più robusta possibile per evitare penetrazioni e compressioni: il casco non deve cambiare foggia durante l’impatto, è il polistirene che ha il compito di schiacciarsi ed assorbire l’energia cinetica».
«Si parla molto di deformazione controllata, così come avviene per le auto, ma ci si dimentica il fatto che lo spessore di un casco è molto minore rispetto alla lunghezza di un cofano. La tecnica, a nostro avviso, non offre buoni risultati perché scaricando sulla calotta la responsabilità di assorbire l’urto se ne compromette la protezione. Peraltro, proseguendo il parallelo con le auto, siamo sempre stupiti della costante evoluzione della protezione – e degli standard che la regolano – nel mondo delle quattro ruote, se paragonata al totale immobilismo del nostro mondo motociclistico».
C’è una forte responsabilità delle Case costruttrici in questo.
«Dovremmo trovarci e lavorare insieme per migliorare, far evolvere gli standard, e dare voce alla nostra dedizione per la sicurezza. La maggior sicurezza passa per un miglioramento costante, che spesso magari non è visibile all’esterno – siamo noi che dobbiamo continuare a lavorare e fare si che la sicurezza sia il primo elemento di scelta per un casco».