Il fascino senza tempo dei grossi "mono" inglesi
Per lungo tempo tanti sportivi e appassionati italiani hanno sognato le grosse cilindrate costruite dalle aziende d’oltremanica. Marchi come Triumph, Norton, BSA e Matchless erano quasi mitici. Alcune nostre case erano diventate famose nel mondo per i loro successi in campo agonistico, ma la produzione di serie era formata da moto di cilindrata generalmente modesta, nate per il normale impiego di tutti i giorni e destinate fondamentalmente al mercato interno, sul quale modelli più grandi non avrebbero potuto avere una buona diffusione per ragioni economiche.
Il boom delle maximoto sarebbe arrivato solo sul finire degli anni Sessanta. Prima, i modelli di prestazioni più elevate proposti dalle industrie italiane sono stati dei monocilindrici di 175 cm3, ai quali hanno fatto seguito alcuni eccellenti 250. Le poche bicilindriche nostrane non erano certo brillanti e avevano una cilindrata che arrivava al massimo a 350 cm3. C’erano un paio di grossi mono, ma erano di impostazione non proprio modernissima, avevano un costo elevato, prestazioni tutto sommato mediocri e venivano considerati un poco come pacifici mastodonti. I numeri di vendita erano assai modesti e ben presto queste moto, che pure avevano un loro innegabile fascino, sono uscite di scena. Nomi come Falcone e Saturno (realizzato anche in versioni destinate alle gare di velocità e di cross) sono comunque entrati nella leggenda.
La scuola inglese dei Big Single
In Inghilterra la situazione era ben diversa e le 500 monocilindriche erano numerose. Quasi tutte avevano origine in progetti d’anteguerra o che risalivano agli anni Quaranta, che in seguito erano stati ampiamente aggiornati. E i costruttori continuavano a lavorare al loro sviluppo, per soddisfare la forte richiesta da parte del mercato interno; non solo queste moto erano popolarissime per l’utilizzazione quotidiana, ma venivano ampiamente adibite a uso sportivo, e trovavano largo impiego nelle numerosissime gare off-road, dal cross al trial; in pratica ogni fine settimana c’era solo l’imbarazzo della scelta.
A questa florida situazione si aggiungeva, nella maggior parte dei casi, una considerevole domanda da parte degli appassionati americani. Negli USA infatti queste moto venivano apprezzate per un normale uso stradale, ma ancor più come mezzi di svago e per essere utilizzate nelle sempre più popolari competizioni su piste in terra battuta o su percorsi fuoristrada. L’importanza di questo mercato era tale che dall’inizio degli anni Cinquanta alla metà del decennio successivo diversi modelli monocilindrici di 500 cm3 sono stati realizzati solo per essere esportati negli States.
Parlare di moto inglesi da Gran Premio equivale a parlare di Norton Manx bialbero e di Matchless G 50 monoalbero, destinate ai piloti privati e costruite in numeri modesti per le gare di velocità. In questa sede però ci si riferisce a modelli che sono stati normalmente prodotti in serie per essere utilizzati su strada, o nei percorsi off-road. Realizzati secondo gli schemi tipici della scuola inglese questi monocilindrici di 500 cm3 avevano la distribuzione ad aste e bilancieri ed erano quasi tutti a corsa lunga; solo la Velocette e le ultime monocilindriche Matchless e AJS, che erano praticamente uguali e facevano parte dello stesso gruppo industriale, avevano misure “quadre” (rispettivamente 86 x 86 mm e 86 x 85,5 mm). Altre caratteristiche comuni erano la lubrificazione a carter secco, la trasmissione primaria a catena e il cambio separato; quello in blocco è stato impiegato solo dalla BSA per le 441 (derivate da modelli di cilindrata inferiore e apparse nel 1965) e per le ultime 500, costruite nel 1971-72.
Nel mondiale di cross fino al 1963 le grosse monocilindriche hanno dominato la scena; quelle che hanno conquistato il titolo iridato in genere erano realizzazioni quasi artigianali o moto costruite in qualche esemplare soltanto. È il caso delle svedesi Lito, Monark e della stessa Husqvarna. Le inglesi erano molto vicine come prestazioni ma erano più pesanti e impegnative (o forse era una questione di manico; per diverso tempo i migliori specialisti sono stati scandinavi…). A loro comunque va il merito di avere riempito le griglie di partenza; in genere infatti erano in libera vendita e questo faceva sì che venissero impiegate da un gran numero di piloti privati. Poi, quasi alla metà degli anni Sessanta, sono arrivate le BSA della serie con cambio in blocco, più leggere e agili. In sella a queste moto nel 1964 e 1965 il grande Jeff Smith ha vinto gli ultimi mondiali prima dell’inizio dell’era dei due tempi. I grossi mono ad aste e bilancieri hanno continuato a combattere validamente, ma si trattava di una battaglia persa, che comunque qualcuno (la CCM, che aveva preso il testimone dalla BSA, dalla quale aveva rilevato moto, ricambi, attrezzature e diritti) ha portato avanti anche negli anni Settanta.
La timida risposta italiana
In Italia di 500 monocilindriche inglesi ne sono arrivate piuttosto poche; gli appassionati più facoltosi, che potevano permettersi moto estere di rilevante cilindrata, sceglievano quasi invariabilmente le bicilindriche. Rimane il fatto che nel periodo tra la metà degli anni Cinquanta e la fine degli anni Sessanta chi voleva una grossa monocilindrica poteva solo acquistarne una inglese. Per la verità, fino al 1967 la Guzzi ha tenuto in listino il Falcone (la produzione era ripresa nel 1963, dopo alcuni anni di interruzione), ma gli esemplari venduti sono stati davvero pochissimi. Le inglesi erano davvero un’altra cosa… L’ultima casa britannica che ha offerto un grosso monocilindrico stradale di serie è stata la BSA, con la B 50, costruita fino al 1972.
Le classiche monocilindriche inglesi di 500 cm3 sono oggi assai rare, in Italia. In Inghilterra si trovano invece ancora senza particolari problemi. Per i modelli più appetibili e più ricchi di fascino i prezzi richiesti sono però piuttosto elevati. Del resto moto come la BSA DBD 34 o la Matchless G 85 CS certe quotazioni le meritano senz’altro…