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EuroVespa 50: nona parte, Brecon

- Simone Sciutteri è arrivato a Brecon in sella alla sua Vespa PK50, provando a segnare il nuovo Guinness dei Primati nella categoria Longest Journey on a 50 cc. Seguitelo passo passo nella sua avventura su Moto.it!
EuroVespa 50: nona parte, Brecon

Brecon, km 8950

Sul traghetto che da Rodbyhavn mi porta a Puttgarden, mi sento improvvisamente leggero, come i gabbiani che osservo attraverso la grande vetrata del bar di prua, mentre planano lungo la nostra stessa rotta. La Danimarca è stata più faticosa del previsto: il vento mi ha soffiato contro quasi tutto il tempo e sembrava lo facesse apposta, come se lungo quella terra verde e piatta, nascosto tra le casette di mattoni dal tetto ricoperto di muschio, ci fosse qualcuno a regolarne la direzione col joystick. Non ha smesso un attimo neppure la notte che ho passato, ospite di Ida e Jacob, a Nykobing Falster, facendo vibrare i vetri e ricordandomi i minuti passati sul ponte che porta da Vordinborg a Falster Island; peraltro, l'unico momento del giorno in cui il vento mi ha colpito di lato; fortunatamente procedevo sul marciapiede, riservato a noi motocicli e alle biciclette: stretto quindi tra la ringhiera e il guardrail, ma comunque più sicuro che se fossi stato nella carreggiata con automobili e camion. Il mattino dopo poi, un vento ancora più forte ha spazzato l'isola arrivando da est e facendomi finire un paio di volte per campi, per fortuna senza conseguenze, se non quella di impantanarmi con la ruota anteriore nel fango del campo arato da poco. L'idea che sbarcato in terra tedesca non ci sia più vento è del tutto senza senso, eppure mi sento leggero: sto tornando nel continente, nel mondo “normale”, e ho la sensazione che da lì in avanti tutto sarà molto più semplice.

Arrivo a Lubecca, dove passo due giorni a fare il turista, ospite di Barbara e Jan, che mi viziano con hamburger, birre e marzapane. Lubecca, la città che diede origine alla Lega Anseatica, che nel Medioevo univa molte città commerciali – dalla Norvegia all'Italia – è una città davvero bella, così com'è bella Celle – che qui pronunciano Tselle – una tappa che non potevo mancare: il nome è quello di casa mia, anche se non siamo in Liguria, ma in Bassa Sassonia: i comuni sono gemellati e la foto davanti al cartello che indica la direzione verso casa è ovviamente immancabile! Qui a Celle mi ospita un'amica di Barbara, Claire, che con il marito fa parte del comitato organizzativo del Vespa World Day 2017 che si terrà proprio qui: chissà, sarebbe una bella occasione per tornare da queste parti!

Dico a Peyton di godersi per un attimo l'illusione, guardando il cartello che indica casa, perchè la direzione che prendiamo lasciando Celle è ben diversa: andiamo a Ovest, lungo la statale 217, diretti verso l'Olanda. È lungo questa strada che mi arriva, diretta come un pugno in faccia, la domanda: e adesso? La statale è perfetta, i cartelli stradali anche, il tempo è buono; a parte il dover cercare di tracciare una linea sulla mappa che evitasse di attraversare le grandi città industriali, l'attraversamento della Germania è davvero troppo facile; troppo piatta, troppo dritta, troppo “normale”. Si trasforma in un'agonia di chilometri cadenzati con disarmante precisione, ogni cento metri addirittura, dai segnali lungo la carreggiata e non faccio altro che contare, sommare, dividere, i chilometri e le ore e le velocità. All'improvviso, la leggerezza è sparita e i chilometri si fanno lunghi e pesanti. Anche la piccola parte di Olanda che attraverso non mi offre molto di più, a parte la piacevole novità di essere costretto a usare le piste ciclabili. In un primo momento io e Peyton quasi ci restiamo male, ci sentiamo declassati. Ma qui le piste ciclabili sono un'istituzione, corrono anche parallele alle strade a lunga percorrenze e quando la mattina da Helmond procediamo verso sud in direzione Lussemburgo – via Belgio – ci rendiamo conto del privilegio. Mentre il sole spunta e disegna piccoli arcobaleni tra la pioggia finissima, una luce gialla e quasi irreale si diffonde lungo il canale che costeggia la pista ciclabile: poter percorrere quei chilometri senza badare al traffico, senza guardare negli specchietti, senza temere sorpassi azzardati, è un dono fantastico. Dura un attimo però: in breve la noia da paesaggio piatto si rimpossessa di me e a questa si aggiunge la difficoltà di trovare la strada; il Belgio è un labirinto! E le indicazioni stradali sono spesso piazzate in modo da richiedere torsioni o stop improvvisi: mi fermo di continuo a consultare la cartina, perdendo un sacco di tempo. Questa situazione mi accompagna fino a Bassenge: qui, finalmente, la strada comincia a cambiare: saliscendi, colline, curve, annunciano l'arrivo delle Ardenne, che mi regalano tanti chilometri di strade finalmente belle e movimentate e paesaggi che alternano boschi, rocce e scenari paludosi sui piccoli altopiani che si susseguono. Anche la toponomastica rende onore al paesaggio: Dison, Verviers, Jhalay, Malmedy...nomi musicali che hanno lo stesso movimento delle strade che li attraversano. Arrivo a St. Vith che sta quasi per fare buio. Le ore perse per districarsi nella pianura mi mancano adesso, che avevo programmato di entrare in Lussemburgo. Lì avrei dovuto incontrare Paolo, che invece mi viene incontro fino a St. Vith, dove lo aspetto in un bar scandendo le ore con birre e “croque monsieur”. L'indomani porto finalmente Peyton in Lussemburgo, fino a Wiltz. Qui decide di lasciarmi il cavo della frizione, che cambio, con la collaborazione di Paolo, mentre una leggera nevicata imbianca la notte.

Al risveglio, mentre sbadiglio, noto con piacere che i quintali di sale che abbiamo visto spargere sull'asfalto mentre facevamo i meccanici notturni, hanno fatto il loro dovere: la neve ricopre tutto tranne le strade. È l'ultima alba “bianca” del viaggio, mi dico mentre mi strofino gli occhi. Riparto verso il Belgio, in discesa fino a Bastogne e poi, mentre il sole illumina la brina che ricopre ogni cosa, di nuovo saliscendi in un paesaggio bellissimo, tra gallerie di rami spogli ricoperti di bianca brina, campi e paesini medievali. Arrivo a Bruxelles in serata, attraverso un traffico che mi sembra decisamente sproporzionato rispetto alle dimensioni della città. Il centro invece è piuttosto tranquillo e Beatrice, un'amica che studia qui nella capitale belga, mi fa da guida tra le vie del centro storico e tra i viali del quartiere europeo. Qui, la foto davanti alla sede del Parlamento Europeo non può mancare: se io e Peyton abbiamo attraversato tutte queste strade solo con la mia carta d'identità e il suo libretto di circolazione è solo perché l'Europa è unita.
Dopo due giorni bellissimi, ospite di Beatrice e della sua coinquilina Aline, lascio Bruxelles con la fatica che si fa nell'allontanarsi da un luogo in cui sei stato bene; di più: mi sono sentito a casa e la prima notte passata lì è stata anche la prima notte, dopo tanti chilometri, in cui mi rendo conto di aver dormito senza pensare a strade, mappe, traffico, meteo. Credo che anche Peyton, parcheggiato al caldo dentro il portone – con tanto di un altisonante biglietto per i vicini attaccato sul parabrezza, che spiegava come quello scooter stesse facendo il “giro del mondo” – abbia riposato bene. Anzi, ne sono sicuro, perché nonostante il freddo cattivo e umido che per tutta la mattina mi costringe a ripetute pause – tra stazioni di servizio, bar e “friterie” – lui non fa un piega. Parcheggio a Bruges, in piazza Markt, per fare una foto a Peyton con il Belfort, la torre simbolo della città, sullo sfondo. E sorrido vedendo che anche qualche gruppo di orientali ha smesso di fotografare la torre per puntare gli obiettivi su Peyton!

A Middelkerke, improvvisamente, siamo di nuovo sul mare. Lunghe spiagge spazzate dal vento che ammucchia sabbia anche lungo i binari del tram e fortificazioni e bunker e postazioni per i cannoni ancora lì dalla seconda guerra mondiale. Mi guardo intorno senza fermarmi: è tardi e ho ancora un po' di strada da fare.
Arrivo a Dunkerque che sta quasi per fare buio; la città è un vero casino: traffico, viali e circonvallazioni proibiti ai motocicli, indicazioni improbabili, fumo di ciminiere delle enormi zone industriali; quando poi, finalmente, arrivo al terminal, una lunghissima fila di camion fermi per una protesta degli autotrasportatori mi fa temere di dover passare la notte in una città che non mi attira affatto. Invece riesco a imbarcarmi per Dover sull'ultimo ferry in partenza. L'inflessibile addetto all'imbarco mi fa lasciare a terra la tanica di benzina, perché anche dopo aver riempito il serbatoio, ne rimane dentro un litro e, secondo la legge, non la posso imbarcare. Non posso neppure regalare un litro di benzina a qualcuno e tenermi la tanica, perché il contenuto è già miscela. L'inflessibile addetto mi sgrida anche perché non allaccio il casco durante i pochi metri di tragitto tra la fila e la nave: signori, stiamo andando in Inghilterra!
Nella sera di Dover intravedo le bianche scogliere, ma devo subito superare lo straniamento della prima rotonda da fare in senso contrario. Per fortuna trovo un ostello – brutto ma molto economico – a pochi metri dal terminal, all'ombra del castello. Prima di cena, sposto lo specchietto retrovisore da sinistra a destra, e mi addormento poi un po' preoccupato: quanto mi ci vorrà per abituarmi a guidare qui?

La mattina dopo mi rendo conto che non sarà poi così difficile; certo, a ogni incrocio devo pensare e guardare a destra e a sinistra, prima di capire come funziona, ma nel complesso me la cavo abbastanza bene. Mentre passeggio sulle scogliere, a dire il vero, nemmeno ci penso più. E non penso ai chilometri, alla strada, al viaggio. Ci siamo io e i gabbiani davanti a quello spettacolo della natura; e c'è il vento, che i pensieri sella porta via, in picchiata lungo le rocce bianche e poi via, chissà dove, verso il largo. Per qualche chilometro costeggio lo stretto della Manica, poi riprendo a fare chilometri verso l'interno: l'intento è quello di arrivare a Oxford in un paio di giorni.
La prima notte la passo a Petersfield. Trovare una sistemazione a un prezzo decente è impossibile. Ma c'è un parco col laghetto, potrei accamparmi lì, mi dico. Però, prima decido di entrare in un pub per chiedere informazioni. I baristi, si sa, sanno sempre tutto! E poi mi dico che potrei usare la tattica: “piazzati lì e racconta a tutti la tua storia...vedrai che qualcosa succederà!” Finisce che il proprietario si offre di ospitarmi in cortile, sotto la tettoia. C'è spazio anche per Peyton, quindi la sistemazione è perfetta. Il sacco a pelo fa il resto e dormo una buona notte di sonno senza accusare il freddo.
Le strade inglesi sono piuttosto malandate. Quanto meno: le strade secondarie che prendo io. Asfalto vecchio e rovinato, toppe che sono peggio delle buche, cartelli che segnalano allagamenti che non vengono mai tolti, cantieri a ripetizione, qua e là un po' di ghiaccio che luccica e bordo carreggiata inesistente; anzi, spesso il fango scivola giù dalla specie di argine che costeggia la strada invadendo la corsia. In compenso tutti i villaggi che attraverso mi affascinano, con le loro casette in mattoni e le chiese gotiche e i nomi da romanzo storico. Da un momento all'altro mi aspetto di veder spuntare qualche cavaliere o un tagliapietre, se non addirittura qualche elfo. In più, da queste parti, i cartelli stradali rasentano la perfezione e tutti sanno perfettamente dove si trova la strada che sto cercando. Infine, nonostante a volte dietro a me e Peyton si formino code di quindici macchine, non c'è nessuno che mi supera con la linea continua, nessuno che azzardi un sorpasso pericoloso, nessuno che mi abbia mai suonato il clacson o rivolto gesti di stizza dal finestrino per avergli fatto perdere un po' di tempo.

Prima di dirigermi verso nord decido di deviare per andare a visitare Stonehenge. La statale che mi ci porta supera dolcemente qualche collina e, all'improvviso, vedo spuntare i menhir sulla mia destra! Per un attimo rimango incantato, poi devo concentrarmi di nuovo sulla strada a quattro corsie che sto percorrendo. Ecco, quell'immagine riassume tutto: a duecento metri dalla mitica Stonehenge, passa una statale trafficata. Probabilmente ci vuole il momento giusto, una giornata meno affollata di turisti che si mettono in posa all'ombra delle enormi pietre, più tempo, per riuscire a riscoprire il fascino del luogo, delle campagne verdi che lo circondano con cui il cerchio di pietre è in simbiosi...
Oxford è una cittadina affascinante e particolare. Nel centro tutti i college stagliano le loro torri e i campanili della chiese verso l'alto, a competere l'uno con l'altro in bellezza e prestigio. Sono tutti edifici magnifici e la sensazione è quella di camminare nella storia, o in un romanzo fantasy. Ma Oxford è anche piena di giovani, di locali, di pub. Mi fermo due giorni anche qui, ospite di Ottavia, un'amica di vecchia data che non vedevo da qualche tempo. Con lei e Matteo, un altro amico che vive qui, passo due giornate divertenti e interessanti e imparo i nomi dei college e quelli dei pub!
Anche allontanarmi da Oxford, oggi, mi è costato fatica; mi sarei fermato ancora e per di più la A40 per tutta la prima parte è troppo veloce e trafficata. Appena abbiamo potuto l'abbiamo abbandonata e ci siamo tornati solo dopo parecchi chilometri, ormai in Galles e in prossimità delle Black Mountains, che mi hanno regalato paesaggi mozzafiato, lungo una strada che è perfetta per le due ruote.
Dalla camera che ho preso sopra un pub, a Brecon, anche Oxford adesso sembra lontanissima. Come lo sembrano la Germania, il Belgio, il Lussemburgo...Il tempo ha perso completamente senso, l'unica misura con la quale riesco a dare un ordine alle cose è quella dei chilometri – che qui mi tocca pure ricavare dai cartelli moltiplicando le miglia – ma non funziona così bene: quanti sono “1000 chilometri fa”? Impossibile dirlo perché certi chilometri finiscono subito e altri invece non passano mai. Domani sarà Fishguard e il traghetto, nella notte per l'Irlanda. Qualche chilometro anche lì e poi sarà Francia. Da lì strada sarà, finalmente (e per chissà quanti giorni o chilometri) diretta verso sud, più a sud, sempre più a sud.

Simone Sciutteri

  • Simone.Sciutteri
    Simone.Sciutteri, Celle Ligure (SV)

    Ciao Ronny,
    Grazie...e scusa i tempi di risposta! Ti dirò di più: per me affrontare questo viaggio con un mezzo così semplice è stata una scelta - il viaggio lento, in mezzo alla gente, lungo strade secondareie - ed anche una necessità: avessi avuto un mezzo più potente, costoso e complicato, non mi sarei sentito così tranquillo come con un PK50, che, in qualche modo, in caso di necessità, si riesce sempre e ovunque a rimettere in sesto!
  • Ronny.Scarduelli
    Ronny.Scarduelli, Moglia (MN)

    W chi ancora si "diverte con poco"

    Ciao, volevo solo dirti che sei un grande!!
    Ai miei tempi tra amici si diceva sempre che l'importante era divertirsi con poco, nel senso che ci si accontentava e che ci si divertiva davvero, ora questa cosa si è un po' persa se non hai un 1200 sotto al sedere non si può chiamarsi motociclista e soprattutto non si può affrontare giretti seri......quindi complimenti a chi con "poco" riesce a divertirsi così tanto!!!questo è il vero spirito di chi va in moto, 2 ruote,un cilindro e via andare!!!
    grande sei un grande
    ciao
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