In viaggio nei Pirenei - il ritorno Ep.1
Perché ci vuole orecchio, cantava il grande Enzo Jannacci. E in effetti per partire bisogna averlo tutto e non solo un pezzo, per di più incerottato. Sulle sponde dell’Atlantico è andata in scena un’apoteosi gastronomica. Frutti di mare e pesce per cene luculliane abbondantemente innaffiate da vini bianchi che spesso si facevano apprezzare per le loro bollicine. Due giorni di dolce vita sull’oceano per ricaricare le pile e per dare il tempo di guarire anche al mio orecchio infortunato dopo un banale incidente domestico: chi si alza di notte ed evita di accendere la luce per non disturbare gli altri ospiti della casa sa quanto è facile inciampare nelle gambe di un tavolo o mancare il letto per un errato calcolo delle distanze. Tra mancare il giaciglio e sbattere testa e orecchio sul comodino adiacente è un attimo, che nel cuore della notte trasforma una casa in un pronto soccorso stile Grey’s Anatomy: alcol, garze e cerotti compaiono per incantesimo nelle mani della dottoressa Raffa che tampona l’emorragia e sutura il lembo malconcio aiutata dai Gianni e Stefano, svegliati dal trambusto e immediatamente nominati infermieri sul campo.
Niente di drammatico, tutto s’aggiusta, orecchio compreso, ma per infilare il casco integrale e appoggiarci sopra la stanghetta degli occhiali occorre attendere almeno un paio di giorni perché la ferita si cicatrizzi un po’. E quando la quotidiana prova casco serale va a buon fine, è tempo di ripartire, almeno per noi tre Africaner, in quanto tutti e tre possessori di Africa Twin seppure di epoche diverse. Stefano, il quarto, si ferma qui. La Raffamedicazione sembra tenere e il dolore, una volta indossato il casco, è assolutamente sostenibile. Inoltre per Gianni, un motivo in più: riabbracciare la bella amata di cui sembra già sentire la mancanza nonostante l’incalcolabile minutaggio delle telefonate e l’impressionate numero di whatspp che raccoglie in un archivio dedicato sfidando la memoria del suo telefonino.
Il tempo di rifare i bagagli, sistemarli sulle moto e ipotizzare un itinerario sulla carta stradale è sufficiente per capire che con la suddetta carta ci possiamo far su il pesce che non abbiamo mangiato: riporta ancora il prezzo di acquisto, in lire. Che qualcosa non quadrasse l’avevamo intuito appena abbandonati i Pirenei: la mappa del sud della Francia che Attilio aveva orgogliosamente estratto dalla sua borsa da serbatoio per guidarci verso l’oceano non annoverava alcune autostrade presenti sulla segnaletica stradale agli incroci. Di più: erano strade conosciute e percorse da Stefano, che viene da queste parti da più di 10 anni. Perciò dopo Pau ci affidammo a quello che noi consideriamo a pieno titolo il nostro agente sull’Atlantico, mettendo a tacere l’uomo delle mappe stradali. Ora però, senza Stefano, non ci resta che affidarci a un vecchio Tom Tom che perplime non poco il semprescettico Attilio, e imboccare il lungo nastro d’asfalto della statale che attraversa la foresta e le Landes fino alle prime colline che annunciano Rocamadour.
Il mantra per questo ritorno è <No autobahn>, niente autostrade nei limiti del possibile, e lo trasferiamo al Tom Tom affinché calcoli percorso, chilometraggio e durata in modalità Evita pedaggi. Intendiamoci, non è taccagneria, le strade statali permettono di apprezzare molto di più il territorio: un andamento più lento che almeno in questo caso attraversa una foresta strepitosa per come è tenuta e gestita da regioni e dipartimenti. Ma non solo. I villaggi in cui si concentra la popolazione locale rispettano geometrie e architetture coerenti con questo territorio in un’armonia interrotta solamente dalla grigia linea retta dalla statale. L’atmosfera on the road raggiunge il suo climax quando incrociamo un gruppo di harleysti che viaggiano in direzione opposta. Con i loro bobber e le loro ape hanger sembrano usciti da un fumetto: il nostro saluto è accompagnato dal sorriso divertito di chi apprezza lo sforzo ma non ne condivide lo spirito.
La sirena di un’auto della polizia che ci sorpassa ci riporta immediatamente con i piedi per terra e con le ruote su questa statale che attraversa una Francia rurale lontana mille miglia dalle luci di Parigi e dalle onde dell’oceano. Poco avanti una pattuglia di cacciatori con fluopettorina della protezione civile e fucile a tracolla saluta il nostro passaggio quasi a tranquillizzarci: siamo qui anche per voi. Ne approfittiamo per chiedere dove conviene fare una sosta: benzina e caffè non possono più attendere. Ci indicano un piccolo bistrot lungo la strada che ci offre il ristoro di una bevanda all’ombra e la possibilità di verificare il nostro itinerario.
Gps e Google Maps concordano, ma la conferma dell’oste locale che siamo sulla strada giusta tranquillizza Attilio, orfano della sua mappa stradale: all’epoca di Vercingetorige queste strade non esistevano. Confortati da tutte queste informazioni decidiamo di ripartire. A Rocamadour, che vorremmo visitare con la luce del giorno, mancano ancora più di 150 chilometri (tre belle ore di moto) e prima dobbiamo raggiungere il Domaine de Christine, ad Alvignac, dove contiamo di trascorrere la notte. Prima di riprendere la strada, un breve consiglio di guerra stabilisce nell’ordine: pieno di benzina alla prima stazione di servizio, sosta in supermercatino per acquisto generi di prima necessità per colazione, raggiungimento Domain de Christine per sistemazione, bagno rinfrescante nella piscina del Domaine, risalita in moto in abiti civili per raggiungimento di Rocamadour, prima presa di contatto con il borgo, cena in ristorante acconcio e passeggiata serale defatigante nel borgo illuminato prima di rientrare nel confortevole casale del ’500 che Christine e il marito hanno riservato a noi almeno per questa notte.
Come tre moschettieri, gli Africaner si mettono in sella. Davanti il sottoscritto Tom Tom munito, dietro Attilio e Gianni, sempre pronti a verificare on the road le opzioni, spesso incomprensibili al momento, del nostro tecnoVirgilio. Il programma di viaggio viene rispettato. La sosta al Lidl poco prima di Avignac non delude. Troviamo frutta fresca, yogurt e pane per la colazione di domani. E il Domaine de Christine è una sorpresa che va oltre le nostre più rosee previsioni: dormiremo nell’appartamento che Christine e il marito hanno arredato all’interno di questo casale del ’500 affacciato sulla campagna occitana dove pascolano pecore e mucche. All’interno due camere ben arredate e un soggiorno con cucina bien equipée. Un paradiso bucolico che apprezziamo anche dalla piscina e che Gianni si affretta a documentare con un video immediatamente inviato all’amata accompagnato dalla promessa di ritornare con lei al più presto.
Presto, appunto. Anche noi dobbiamo sbrigarci se vogliamo vedere Rocamadour che è a 4 chilometri. Per cui sollecitiamo Peynet a inviare video e cuoricini, a deporre il telefonino e a prepararsi per la serata in quello che viene considerato uno dei più antichi e visitati (secondo solo a Mont-Saint-Michel) borghi di Francia. Nonostante questo biglietto da visita, Rocamadour disattende le mie, e anche quelle dei miei due pard, aspettative. Intendiamoci: il borgo arroccato sulle falesie è splendido, ma il richiamo dei turisti e la conseguente necessità di organizzare parcheggi e aree di sosta per regolamentare il flusso dei viaggiatori ha tolto molta poesia a questo gioiello di architettura e di urbanistica medievale: purtroppo è tardi per salire i 216 gradini della Grande Scalinata che conducono ai sette santuari e non potremo nemmeno ammirare il panorama del Parco Naturale dei Causses del Quercy dalle mura fortificate.
La cena sulla terrazza affacciata sul canyon dell’Alzou e sul quel che si riesce a intuire della verde vallata è puro spettacolo. Gianni, che ha lasciato il telefono a casa non può mandare videomessaggi, sublima il suo afflato amoroso ricordando alcuni dettagli del primo incontro con Daniela, qualora ci fosse malauguratamente sfuggito qualche particolare. Quattro passi con foto opportunity lungo la strada centrale dominata dal palazzo episcopale illuminato ci riportano alle moto e poi verso casa. Domani ci aspettano altri 300 chilometri fino a Puy en Velay.
- continua
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raptor46, Bologna (BO)forse non lo sapete, ma gli afrikaners sono quelli che in Sudafrica hanno fatto la segregazione razziale e l'apartheid... Non ne andrei tanto fiero