Dakar 2017. Marc Coma: “La moto mi manca, ma non è troppo lontana!”
Marc Coma, quarant’anni da suonare tra non molto, oltre metà dei quali dedicati alla Moto e alle corse. Gli ultimi 15 anni votati a vincere cinque Dakar, sei titoli di Campione del Mondo e tutti i principali e più importanti rally almeno una volta. L’ultimo anno… per cambiare vita. Pensare a Marc Coma lontano dalla sua “arma”, la moto, da vent’anni e passa strumento fondamentale del suo lavoro, fa un po’ strano.
Quasi si fa ancora fatica a crederci. Eppure è già un anno che Coma è sceso dalla moto, non perché fosse venuto il momento di appendere il casco al chiodo, non al tramonto della carriera, ma per diventare, ancora nel pieno fulgore delle proprie incredibili attitudini sportive, il Direttore Sportivo della Dakar, il braccio destro di Etienne Lavigne. Il campeon di Avià, dunque, è ancora lì, a un passo dalla pedivella di messa in moto. Non mi meraviglierei se un giorno, anche “temprano”, Marc decidesse di riprovare l’ebrezza del vento in faccia. Magari in un’altra forma.
Intanto, il catalano è in pieno vortice organizzativo della Dakar 2017, la prima alla quale partecipa sin dall’inizio in qualità di organizzatore, con in più la grande responsabilità di esserne ambasciatore in un continente in perenne subbuglio ed evoluzione. Non è stato l’ingresso più “indolore” che si ricordi, e infatti Coma si è trovato subito nel ciclone di una situazione particolarmente ingarbugliata. Ma questa è la vita. Talvolta non c’è troppo tempo per imparare affidandosi alla “teoria”, ma bisogna lanciarsi nella mischia e “impratichirsi” al volo. Marc è stato il numero 1 in sella, perché non dovrebbe esserlo anche… a piedi?
Marc, a giorni è ormai un anno che non corri più. Dopo il clamoroso annuncio del tuo ritiro per assumere il nuovo incarico, niente più moto. Ti mancano la moto, il clima della grande corsa, l’ambiente?
«Sì. Ormai è già un anno. L’ultimo Rally al quale ho partecipato è stato il Sardegna Rally Race. Un anno tra qualche giorno. Son lontano dalla moto, ma… non tanto lontano. Sono sempre lì, nel mio mondo intorno alla moto, nei rally, nella Dakar. Cosa succede, in pratica? Che vado ancora a girare ogni tanto, ma molto poco. Vado tanto in bicicletta, invece e, sempre che ci sia tempo, vado in palestra. Cerco di stare ancora in una condizione che per me era “normale”, cioè in forma. La verità è che mi manca il tempo, e che c’è tanto lavoro da fare. Quello che non cambia è la mentalità, il desiderio di fare dello sport, di starci dentro».
Un anno che non corri in moto, e un anno che “corri” in un altro mondo. Che dici di questo mondo diverso, dall’altra parte di quello dove vivevi tu?
«La prima cosa da dire è che è un mondo molto interessante. La seconda è che sto imparando tantissimo. La mia testa era abituata ad essere sintonizzata sulla logica dello sport, ma ad un certo livello si entra anche nella politica, e la politica è un po’ più difficile da capire, perché talvolta non va nella stessa direzione della logica dello sport. È un mondo un po’ più complicato. Questo per me, che vengo dallo sport, naturalmente. Uno che ha fatto politica da sempre, penso che non abbia nessuna difficoltà a starci bene».
Ma te l’avevano spiegato, che avresti dovuto affrontare anche questo aspetto della vita?
«Certo, e non è che sono capitato all’improvviso in un mondo che non mi aspettavo. È parte delle cose, di quelle che non si conoscono e pretendono un logico periodo di apprendistato. La cosa più importante è che abbiamo iniziato una bella storia con ASO, e adesso siamo concentrati sull’obiettivo di fare un bel lavoro per il prossimo anno, ovvero quella Dakar bella che abbiamo in testa».
È stato un anno di lavoro, durante il quale avresti dovuto dedicare molto tempo, appunto, ad imparare, a calarti progressivamente nel nuovo ruolo. E invece ti sei trovato subito in mezzo alla “grande guerra” dei paesi che ospitano la Dakar. è così?
«Beh, in un certo senso sì. La verità è che non è la stessa situazione che c’era quando la Dakar è arrivata in Sud America. Le situazioni geopolitiche ed economiche non sono le stesse, e le nuove condizioni hanno influito sull’evoluzione del progetto, in particolare sull’elaborazione del percorso della scorsa edizione. Quest’anno eravamo più preparati, e penso che siamo riusciti ad ipotizzare e disegnare un percorso interessantissimo. Penso che per gli appassionati, per tutti, sarà una bellissima sorpresa. C’è tanto lavoro da fare ancora, ma la realità è che il contesto geopolitico del Sud America è diventato più difficile. Alla fine bisogna tenere conto sempre di più del fatto che anche i calendari e le esigenze di ogni Paese possono essere diversi da quello che immagina la Dakar, e che quindi bisogna lavorare molto per adattare soddisfacentemente le situazioni più varie».
Quando immaginavi di smettere di correre pensavi soprattutto al fatto di poter passare più tempo con la famiglia. È accaduto questo?
«No, questo no. In questo senso non ha funzionato come era nei propositi originali, non nella misura desiderata. Adesso mi divido tra Parigi, il Sud America e casa. È una buona combinazione. Sto viaggiando un po’ di più rispetto a prima, ma mi piace e ne traggo una nuova soddisfazione, anche professionale. La famiglia si è adattata alla nuova situazione, peraltro già conosciuta visto che continua a ruotare attorno alla mia passione per la Dakar. Ecco, non vado più in moto, d’accordo, ma tutto quanto gira ancora, anzi forse ancora di più, attorno alla Dakar. Questo non è cambiato, la mia famiglia lo sa e lo accetta esattamente come prima».
E con i tuoi “ex” colleghi, è cambiato qualcosa? Come funziona il nuovo registro di relazione? Hai più amici o nemici? Più avversari o alleati?
«Con i piloti credo che funzioni bene. Se parliamo del mondo dei professionisti, è chiaro che ciascuno segue principalmente i propri interessi, ma sono contento, l’atmosfera che si è creata è buona, positiva. Posso dire che quando ho smesso di correre ho lasciato soprattutto degli amici. Adesso ritrovo gli stessi amici, anche se mi vedono in un altro ruolo. In questo momento penso che posso avere una relazione addirittura migliore con i miei “ex colleghi”, migliore ora che c’è più tempo per coltivarla e che non ci sono più i motivi che ci rendevano “avversari”. Prima la mia priorità era ottenere il risultato, ora il mio obiettivo è che lo ottengano gli altri nella migliore condizione possibile».
Avendo lasciato KTM hai aperto, forse anzitempo, le porte a una nuova era. Pensi che dal punto di vista sportivo KTM abbia già trovato i tuoi “eredi”, o c’è tempo per verificarlo?
«Guarda, già fatto. Hanno ugualmente vinto la Dakar, e penso che per loro tutto vada ancora nella stessa direzione. Hanno trovato facilmente la strada buona. In KTM credo che viva ancora molto forte lo spirito di Hans Trunkenpolz. È quello spirito del fondatore della squadra che Stefan ha ereditato per dirigerla, e la famiglia è rimasta la stessa e con la stessa filosofia. Hanno dovuto solo scegliere il pilota giusto, il resto cambia poco».
Anche secondo te, dunque, Toby Price è il pilota “giusto”? Sarebbe interessante avere il tuo giudizio, ora anche da un altro, più aperto punto di vista.
«Ho tutti i punti di vista che servono. Da dentro, l’avevo già visto l’anno scorso, quando al primo anno di partecipazione alla Dakar ha conquistato il podio. Da fuori, quest’anno l’ho visto vincere e credo che sia lui l’uomo della next generation. È una cosa facile da vedere. Quando uno non sbaglia, non cade troppo, sa aspettare e attaccare, sa vincere. È sempre l’uomo che fa la differenza!»