Paolo Ceci: "Una Dakar strana... da enduristi"
E bravo Paolino, adesso scopriamo di avere un nuovo mestiere, e che siamo bravissimi. Parlacene un po’, per favore.
«Parli del mestiere del rimorchiatore, forse? Beh, direi che sono orgoglioso di quello che ho fatto. Senza dubbio. Perché ero qua con la speranza di poter fare la mia gara tranquilla perché nessuno doveva avere dei problemi. Invece i problemi sono arrivati, e io non mi sono assolutamente tirato indietro. Sapevo bene quale era il mio compito, e quindi l’ho fatto con… è difficile dire “con piacere”, perché trainare un altro motociclista è una fatica inumana, però l’ho fatto nel rispetto delle mie consegne. Di questo sono contento, anche perché mi sembra che tutto il team abbia apprezzato. Anche un semplice grazie, talvolta, è una soddisfazione che ti porti dietro per tutta la vita».
Beh, hai fatto una cosa importante…
«Sì, questo lo so, importante per la squadra, e l’unica cosa che mi è dispiaciuta è che Barreda non sia poi ripartito e sia rimasto in gara».
Oltre metà gara, se Gonçalves è ancora in gara, e se è stato primo, è in buona parte merito tuo, sei stato il suo jolly in un mazzo che ne contiene almeno tre. Ma spieghiamo di cosa stiamo parlando. Raccontiamo cosa significa…
«Tirare un compagno di squadra per chilometri e chilometri? Non ci vuole molto a dirlo, ma bisognerebbe provarlo. Se uno non lo prova non lo può capire. Per la verità non lo immaginavo neanche io, e mi aveva fatto specie la prima volta che ho trainato Gonçalves per tutto il trasferimento della prima tappa, poi annullata, diventando il suo Jolly. 300 chilometri, ed erano tutti di asfalto, e già avevo pensato: porco cane che roba che è! Poi è arrivato il turno di Barreda, e sono diventati 500 chilometri, e questa volta tutti in fuoristrada. È difficile descrivere. È una fatica immane, e un lavoro che ti lima la testa. La cinghia si è rotta non so quante volte, abbiamo superato dei punti in cui piloti in corsa facevano fatica a soli. E noi in due, con quel cordone ombelicale così delicato e pericoloso. Posti con la sabbia sotto le ruote, dove si faceva fatica in prima a manetta a procedere. E poi la paura, il patema d’animo che Joan cadesse, o che cascassimo tutti e due. E l’incubo quando sentivamo arrivare una macchina, come un missile. Via da una parte, e quando era passata, quindici-venti secondi in cui non vedevi nulla, a trenta all’ora ma senza vedere nulla. Completamente al buio con uno dietro, al traino. Finita lì? No. Avevamo per tutto il tempo la paura di non riuscire ad arrivare prima del fuori tempo massimo, ed essere quindi esclusi dalla gara entrambi. E quindi, dove il terreno lo consentiva, via a manetta, a ottanta-cento all’ora. Alla fine, ci abbiamo messo quattro ore soltanto più del primo classificato. Non è stata una brutta “Speciale”!».
Dai, come ti sembra questa Dakar, al netto delle tue avventure personali?
«Cosa dire, sin qui è stata una Dakar strana. La prima settimana è stata strana per il tempo, e anche per il percorso. Faticosa per me, ma per altri motivi, e strana e noiosa perché un giorno parti con la tuta da acqua, poi te la devi levare, poi se non te la rimetti ti inzuppi. Una rottura! Comunque una Dakar non dura, lo si è visto anche dal numero ridotto di ritiri. Secondo me a un “rallysta” puro, come mi considero io, è piaciuta meno. Navigazione zero, agli enduristi forse è piaciuta di più, soprattutto ai debuttanti, o almeno ha consentito loro di inserirsi meglio nel contesto. Ero sicuro, d’altra parte, che dopo la giornata di riposo sarebbe cambiato tutto. È cambiato addirittura troppo, al punto che hanno dovuto scorciare la speciale. Ma io, per la verità, non me ne sono quasi neanche accorto. Ho ripreso il mio “lavoro” di sempre, e ho trainato ancora Paulo Gonçalves, che è riuscito anche, nel rocambolesco contesto che si è sviluppato dopo, a rimanere in gara e a conservare almeno un posto sul podio».