rubrica letteraria

I Racconti di Moto.it: "Il crimine colpisce duro ad Abbiategrasso"

- Il racconto del nostro Antonio Privitera abbraccia oggi i misteriosi furti di bici che colpiscono la placida Abbiategrasso. Scoprite con noi chi si cela dietro questa fastidiosa piaga
I Racconti di Moto.it: Il crimine colpisce duro ad Abbiategrasso


"buon viaggio a te, mamma. se puoi, fatti sentire".


Il crimine colpisce duro ad Abbiategrasso


- …e tanti saluti a ‘soreta! – disse il brigadiere dell’armeria sorridendo sardonico mentre riceveva in consegna la Beretta dal maresciallo Vasca, da quel momento ex maresciallo in congedo forzato in seguito ad una grave condanna penale in primo grado.


Manfredi Vasca consegnò la pistola, le mostrine e l’uniforme della gloriosa Arma dei Carabinieri - servita con inoppugnabile dignità negli ultimi sedici anni - ad un armiere che poco faceva per celare l’universale soddisfazione della caserma di Palermo di essersi sbarazzati di un collega scomodo.


L’uso di metodi sbrigativi con uno dei ladri di motociclette era costato caro a Manfredi; ma le moto a Palermo sparivano a decine ogni giorno senza lasciare traccia e quando il questore ed il prefetto furono obbligati dall’allarmata opinione pubblica ad occuparsi seriamente del caso, il maresciallo Vasca fu cooptato e costretto ad usare tutta la sua esperienza e le sue energie per risolvere il caso, ricavandone soltanto una condanna penale a due anni e l’immediata espulsione dall’Arma. Aveva già ricorso in appello, con poco entusiasmo.


I casi di furto di motociclette a Palermo in quell’inizio di anni ’80 sembravano una irresolubile piaga sociale; dopo alcuni sequestri di furgoni alle frontiere, si era innanzitutto accertato che i mezzi venivano smembrati, trasportati verso paesi oltrecortina e rivenduti a prezzi ridicoli ma il problema era che nessuno degli arrestati parlava, nessuno svelava i meccanismi dell’organizzazione lasciando gli investigatori annaspare al buio alla ricerca dei mandanti di questi odiosissimi furti che presi ad uno ad uno fanno rabbia ma quando ti accorgi che spariscono venti motocicli al giorno selezionati per marca e modello a seconda pure dei giorni della settimana, se sei un prefetto ti girano un po’ gli zebedei e ti senti preso per i fondelli. Sfacciatamente, l’organizzazione criminale chiamata “cesoia bianca” rubava il lunedì le moto giapponesi, il martedì i bicilindrici boxer e a V, il mercoledì le supersport, il giovedì le touring, il venerdì entrofuoristrada, il sabato faceva incetta di Vespa e mezzi d’epoca, la domenica era il turno delle custom. Manco un giorno di riposo, quando si dice l’attaccamento alla professione; si permetteva pure il lusso di non cambiare mai il modus operandi, sfidando a viso aperto le autorità.


Il prefetto di Palermo, Poretti dott.ssa Eugenia non ci stava a passare per incapace di fronte a tutta la città mettendo a rischio pure la sua carriera politica e così decise di costituire un pool di investigatori fidati e capaci: convocò a Palermo un suo cugino di Abbiategrasso, un carabiniere di nome Manfredi Vasca, cui affidò l’importante compito di supervisionare le indagini e di riportarne esclusivamente a lei i risultati, mossa che fece intendere come la dott.ssa Poretti temesse che “cesoia bianca” avesse un infiltrato nelle forze dell’ordine, mentre di Manfredi si conosceva bene la profonda passione per le motociclette sfociata anche nella fondazione di un motoclub per l’affermazione dei diritti dei motociclisti in quanto minoranza discriminata degli utenti della strada; senza dubbio un elemento motivato e abile del quale erano note la condotta specchiatissima ed illibata, le capacità investigative, la notevolissima cultura ed un’onestà testimoniabile oltre ogni ragionevole dubbio. Insomma, se non fosse stato per il netto sovrappeso e per una certa riluttanza a farsi la barba ogni mattina, Eugenia Poretti ci avrebbe pure fatto un pensierino ed eventualmente per la dispensa papale sapeva di possedere le giuste amicizie.


Per Manfredi Vasca era un ritorno a Palermo, seppure temporaneo e non gradito. Da un paio di mesi aveva infatti ottenuto un sudatissimo trasferimento ad Abbiategrasso dopo averlo costantemente richiesto ogni anno ad un sordo Ministero della Difesa che lo aveva rimbalzato lungo tutta la penisola durante gli anni di piombo per poi trasferirlo nel capoluogo siciliano nell’ultimo quadriennio, a sentire il Ministero per dargli un po’ di conforto familiare dato che lì il prefetto era sua cugina Eugenia, entusiasta sponsor dell’operazione. Nel 1981 Manfredi aveva sposato Paola, appassionata motociclista come lui, decidendo di comune accordo di stabilirsi ad Abbiategrasso dove aveva ereditato una grande casa a due piani dal nonno paterno. Con la sua condotta da encomio solenne, Manfredi sperava di aggiudicarsi la benevolenza dei superiori e di farsi assegnare alla caserma di Abbiategrasso prima possibile e da lì, prometteva a Paola, non si sarebbe mai più mosso fino alla pensione prevista per il 2019.


Ma la scusa con la quale la sua richiesta di trasferimento veniva rigettata di anno in anno era che ad Abbiategrasso non accade mai niente. Nulla: mai un furto, mai una rapina, una molestia, una cane che abbaia di notte, mai liti condominiali, niente malavita né giri loschi. Che senso avrebbe avuto aggiungere un altro carabiniere, tra l’altro di altissimo valore come lui, agli otto già presenti in caserma e sottoutilizzati? Ad Abbiategrasso tutti civili e ammodo, cortesi senza apparire affettati e giustamente orgogliosi della propria integerrima onestà. Non c’era verso: se il maresciallo Vasca voleva essere trasferito nel paese natio, il crimine avrebbe dovuto colpire duro ad Abbiategrasso. Molto duro.


A Paola il fatto di riuscire a vedersi con suo marito ogni venti giorni e soprattutto di fare i giretti in motocicletta da sola, o al limite con i ragazzi del motoclub ma senza Manfredi a guidare il gruppo, cominciava a pesare non poco e faticava ad affrontare la lontananza dal marito giungendo pure a mettere in dubbio la solidità della loro unione, nonché una certa disaffezione per la motocicletta verso la quale meditava addirittura l’abbandono non potendo condividere la passione della vita con l’uomo della sua vita. Manfredi ruggiva rabbioso la sua impotenza, delle due l’una: o Abbiategrasso diventava una specie di capitale del malaffare o sarebbe stato costretto a lasciare l’Arma per poter avere una normale vita coniugale. E anche per poter mettere le chiappe sulle sue moto – ne possedeva sei, tra enduro e sportive - almeno un giorno ogni sette.
Nella vita ci vuole culo.


Iniziò con calma, poi divenne un’epidemia, quindi un cancro, alla fine fu un’intollerabile affronto criminale ad un’intera comunità che dell’onestà aveva fatto un vessillo: ad Abbiategrasso qualcuno rubava le biciclette dal parcheggio – custodito – della stazione dei treni, da quelli dell’Ospedale e dei supermercati, dai giardinetti delle villette e gli abbiatensi incarogniti pretesero una risposta immediata dalle Istituzioni! I furti si susseguivano al ritmo di decine di biciclette sottratte ogni settimana: i candidi Carabinieri di Abbiategrasso, preparati ad affrontare casi non più gravi di un tamponamento a catena, furono colti di sorpresa da questa catena di eventi delittuosi. Manfredi, avuta notizia dalla moglie di questi furti, fece immediatamente domanda di assegnazione ad Abbiategrasso per dare una mano a stanare i ladri di biciclette e il Ministero, viste le credenziali di prim’ordine del maresciallo Vasca e le forti pressioni dell’opinione pubblica, acconsentì senza indugio. Era fatta, Manfredi scese dal treno alla stazione di Abbiategrasso baciando il suolo pensando di avere finito di stare lontano dalla moglie e dalle sue motociclette e disse senza rimpianti addio all’avvilente vita di caserma dove pernottava tra la puzza di umido e il fetore della mensa che gli si attaccava alla divisa.
Il solo inserimento di Manfredi nell’organico della caserma abbiatense produsse un deciso rallentamento della frequenza delle ruberie e fu immediatamente organizzato dal suo motoclub un affollato raduno motociclistico di solidarietà verso le vittime dei furti di biciclette definiti “i nostri cugini a due ruote che dobbiamo difendere, un giorno potrebbe toccare a noi!”.


Manfredi e Paola si godevano finalmente una normale vita coniugale e per festeggiare il trasferimento che pensavano definitivo comprarono un sidecar mettendo pure in cantiere, con grande sollievo di Paola, il progetto di occupare quanto prima il carrozzino con un loro bebè.
Non andò esattamente come avevano previsto, come sappiamo. Fintanto che il malaffare colpisce sottotraccia senza intaccare direttamente e in modo evidente il nostro tenore di vita, le nostre abitudini, i nostri beni più amati e le nostre passioni, finché si può commentare schifati i titoli dei giornali senza staccare il sedere dalla nostra calda poltrona, la criminalità organizzata rimane solo un evento che pare appartenere ad un’altra dimensione a noi aliena. Ma quando il crimine ci investe nella maniera più subdola e tracotante, per esempio rubando l’amatissima motocicletta, si esige a gran voce giustizia per noi e punizioni esemplari per i criminali. Fu esattamente quello che accadde pochi mesi dopo che Manfredi mise piede ad Abbiategrasso: a Palermo esplose il caso della “cesoia bianca”, l’intero capoluogo siciliano sbottò in manifestazioni di piazza e fiaccolate notturne chiedendo la testa delle istituzioni cittadine, in primo luogo del prefetto Poretti dott.ssa Eugenia, cugina del maresciallo Vasca.


Manfredi non fece una smorfia quando ricevette l’ordine di tornare a Palermo chiamato dalla disperata Eugenia per portare avanti le indagini sui furti di motociclette: rivolto a Paola disse soltanto “non ci metto molto, garantito”; sbarcò in Sicilia malvolentieri, maledicendo Garibaldi, con una valigia piccola piccola e una luce negli occhi che lo rendeva simile ad una belva. Non andò al briefing in prefettura dalla cugina, la sentì solo per telefono con toni laconici facendo capire molto bene che non aveva minimamente gradito di essere stato spostato da Abbiategrasso. Tre giorni dopo fu trovato a picchiare selvaggiamente un povero cristo beccato mentre tentava di rubare un Guzzi giapponese. Dovettero intervenire i colleghi per placare la sua ira, persino dei passanti si intromisero per sottrarre alla furia rabbiosa del maresciallo Vasca il colpevole colto in flagranza.
Il malvivente si chiamava Pietro Andronico, aveva ventisei anni e se la cavò con una mascella fratturata e un mese di ospedale, poi fu messo in galera perché nel frattempo risultò anche colpevole di altri furtarellli piccoli e grandi. Non parlò, non rivelò mai chi era a capo di “cesoia bianca” ripetendo fino allo stremo che in Sicilia chi “canta”, muore. Il maresciallo Vasca appuntò l’aforisma per giocarselo al prossimo Festivalbar e riguardo le indagini fu esplicito con la stampa: disse di sapere perfettamente chi fosse al vertice dell’organizzazione criminale, dichiarò di sapere come arrivare all’identificazione dei pezzi grossi e che sarebbe andato avanti ad ogni costo.


Ma non fece in tempo: pochi giorni dopo l’arresto di Andronico, Manfredi fu arrestato a sua volta e parallelamente sospeso dal servizio, processato per direttissima per abuso di potere, lesioni gravissime e una serie di altri reati connessi alle modalità spicce che aveva usato con Andronico e poi, dopo l’inevitabile condanna penale, espulso dall’Arma dei Carabinieri con ignominia. Il tutto in pochissimi giorni, un vero e proprio record per una giustizia italiana in genere lenta come un Ciao monomarcia in salita.
I giornali motivarono la sua ingiustificabile violenza con una eccessiva partigianeria motociclistica debordata nella repressione del crimine attraverso modi intollerabili e primitivi. Tutti, dai colleghi di caserma ai dirigenti del Ministero, presero le distanze da Manfredi che fu esposto alla gogna come un pazzo, un maniaco, un incivile dalla immotivata animosità antidemocratica del quale non meravigliava affatto la sfegatata passione per le motociclette, nello spreco più infame di ogni luogo comune. Dopo qualche giorno in carcere fu lasciato libero in attesa del processo di appello.


Il prefetto Poretti non solo non mosse un dito in sua difesa ma, per non essere minimamente intervenuta in difesa o ausilio del cugino, fu pure indicata come mirabile esempio di integerrima condotta istituzionale. Quando Manfredi uscì dal carcere lei gli fece recapitare un pizzino col quale si dichiarava dispiaciuta per quanto accaduto e “incredibilmente provata da quello che mi hai costretto a fare”; Manfredi ebbe la certezza di avere visto giusto, di avere perfettamente capito chi e perché aveva commissionato tutti quei furti di motociclette e come mai le forze dell’ordine non riuscivano a sgominare la banda della “cesoia bianca”. Capì pure che i quattro anni a Palermo erano stati un tributo versato ad una parente potente e capricciosa che alla fine non aveva retto l’impatto del suo abbandono del suolo siciliano, e non solo di quello.


Manfredi tornò ad Abbiategrasso sconfitto e coperto di ludibrio ma Paola lo accolse a braccia aperte, poco importava che il suo uomo avesse sbagliato: avrebbero ricominciato da loro stessi e ce l’avrebbero fatta, senza dubbio.
In macchina, dalla stazione ferroviaria alla loro casa, Paola chiese a Manfredi:
- Ti hanno trattato male in carcere?
- No, avrebbero potuto ma hanno evitato.
- Perché?
- Forse perché hanno ricevuto ordini dall’alto.
- Chi, tua cugina?
- Beh, si… forse.
- Ma dimmi, quella pazza è ancora innamorata di te?
- Paola, lasciamo stare, dai. Credo che ce ne siamo sbarazzati per sempre… non ho più nessun debito nei suoi riguardi.
- …mmm… non mi convinci. E questi furti di motociclette a Palermo?
- Penso che “cesoia bianca” non si rifarà più viva, non ha più ragione di esistere.
- E adesso che facciamo? Come tiriamo avanti? Non dirmi che ci toccherà vendere le motociclette, no sul serio?
- Non proprio. Tesoro, hai mai aperto il cantinato di casa nostra?
- Manfredi, lo sai che ho una paura matta dei topi e che non lo apro nemmeno se mi costringono con le armi…
- Bene, bene. Appena arrivati a casa fermati lì.
Parcheggiata la berlina di fronte la villetta, Paola e Manfredi si diressero verso casa ma anziché salire i pochi gradini che conducevano al piano rialzato, scesero quelli che portavano al piano cantinato, Manfredi aprì la porta blindata che dava accesso al deposito e accese i neon.
- Sai Paola, ho un sogno: vorrei trovare lavoro presso qualche giornale che scrive di moto, mi piacerebbe tanto. Nel frattempo per andare avanti potremmo vendere queste…
Paola era allibita e con la mente che faceva velocemente i conti con tutti gli avvenimenti degli ultimi quattro anni.
- Ma… quante sono? – chiese al marito.
- Ottocentotrenta. A cinquantamila lire l’una...
- Quindi… eri tu…
- Non c’era altro modo per ricongiungermi a te, amore. O rendevo Abbiategrasso un luogo dove la mia presenza fosse ritenuta indispensabile dal Ministero, o mia cugina mi avrebbe tenuto con sé a Palermo fino alla pensione. Rubare è un gesto ributtante ma se avessi smesso sarebbe saltato tutto. Mi dispiace per tutta questa gente alla quale ho sottratto la bicicletta; un giorno spero di poter ricambiare a tutti il favore… o di rimediare all’ingiustizia.
- Un giorno… ok. Ma ora?
- Non potevo certo rubare motociclette: ho voluto le bici… ora pedalo.

  • carlo angelo.sabbioni
    carlo angelo.sabbioni, Milano (MI)

    mi sorge un dubbio

    ma non poteva dimettersi ?
  • STELLA24
    STELLA24, Pedara (CT)

    Che storia...

    Un racconto geniale, brillante e divertente... una fantasia inesauribile!
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