John Britten, genio e passione
Nato a Christcurch, in Nuova Zelanda, il 1° di agosto del 1950, e purtroppo stroncato a soli 45 anni da un male incurabile, John Kenton Britten era un ingegnere meccanico cresciuto avendo come riferimenti alcuni suoi connazionali diventati celebri nel mondo dei motori. Ovvero Richard Pearse, uno dei pionieri dell’aviazione, Bill Hamilton (inventore delle barche spinte da motori jet), il mitico Bruce Mclaren, ottimo pilota e fondatore, nel 1963, dell’omonimo team di Formula 1, e il famoso Burt Munro, detentore di parecchi record di velocità con la sua Indian, celebrato dal grande Anthony Hopkins nel film “La Indian più veloce del mondo” (se non l’avete mai visto, ve lo consigliamo vivamente).
Ma anche Britten divenne famosissimo nel suo Paese, e nel mondo del motociclismo, perché a cavallo tra gli anni 80 e 90 creò dal nulla una moto da competizione davvero straordinaria, che ovviamente portava il suo nome: la Britten V1000, una formidabile bicilindrica della quale John, prima di morire, riuscì a costruire 10 esemplari, oltre al prototipo originario. La Britten era un moto tecnologicamente all’avanguardia, costruita utilizzando materiali pregiati e fibre composite, in particolare la fibra di carbonio, con la quale Britten aveva particolare dimestichezza. John aveva precedentemente lavorato attorno alla sua Ducati, modificandola profondamente, ma senza ottenere i risultati che un perfezionista come lui esigeva. Dunque decise di farsi una moto tutta sua - motore incluso, naturalmente – e nel 1992 fondò la Britten Motorcycle Company nella sua officina privata, dando vita ad un vero e proprio capolavoro.
Il “cuore” della Britten V1000 era un bicilindrico a V stretta di 60° da 999,7 cc (98,9x65 mm), raffreddato a liquido con radiatore sotto la sella e con distribuzione bialbero in testa a 4 valvole in titanio (da 40 mm in aspirazione e 33 allo scarico) per cilindro. Il rapporto di compressione era di 11,3:1, con pistoni a testa piatta spinti da bielle anch’esse in titanio. L’alimentazione era ad iniezione elettronica
sequenziale con due iniettori per cilindro, abbinata ad un sistema programmabile di acquisizione dati. La lubrificazione era a carter umido, e la trasmissione si avvaleva di un cambio a 5 o 6 marce, con frizione a secco antisaltellamento. Le prestazioni del V2 australe erano già notevolissime ai primi vagiti: si parlava infatti di quasi 160 cv a 12.000 con regime massimo a 12.500, che nelle ultime evoluzioni, poco dopo la scomparsa di Britten, pare siano saliti a oltre 180, per una velocità massima vicina ai 305 km/h. Di questo motore venne realizzata anche una versione da 1100 cc per partecipare a gare open, e vennero realizzate e provate anche testate a 5 valvole. Così ci ha raccontato Roberto Crepaldi, contitolare della milanese CR&S – si, quella che costruisce le Vùn e Dùu – che in quegli anni faceva correre le Britten in livrea giallo-nera CR&S che ovviamente possiede tutt’oggi.
Come sulle Ducati Desmosedici pre-2011 e Panigale, il motore era totalmente portante, quindi non esisteva telaio, sostituito da una serie di strutture di supporto realizzate in fibra di carbonio, al pari delle alle ruote (da 3,50 e 6,00x17”), al forcellone e alla stessa forcella. Quest’ultima era costituita da una struttura rigida tipo Hossack, che faceva lavorare un ammortizzatore centrale Öhlins sistemato appena dietro ad essa. Poco più in basso, davanti al motore, troviamo il secondo Öhlins chiamato a governare la sospensione posteriore tramite un complesso sistema di progressione. I freni erano Brembo, da 320 mm davanti e 210
dietro. La ciclistica naturalmente era regolabile, in particolare per quanto riguarda inclinazione del cannotto di sterzo ed avancorsa, con interasse piuttosto “agile”: 1.420 mm. La poderosa Britten V1000 aveva un serbatoio da 24 litri, e pesava soltanto 138 kg! Sta di fatto che la neonata V1000 al suo esordio avrebbe probabilmente battuto la Ducati 888 di Doug Polen alla 200 miglia di Daytona del 1991, se non gli si fosse rotta la batteria mentre era al comando. Sicché Britten si consolò conquistando il secondo e terzo posto, sempre a Daytona, nella gara della Battle of the Twins. L’anno seguente la V1000 vinse la Bott di Assen e arrivò seconda alla Pro Twins di Laguna Seca, e nel 1993 lasciò di stucco tutti spiccando la più elevata velocità di punta al TT, oltre ad aggiudicarsi vari record di accelerazione da fermo nella categoria fino a 1000 di cilindrata: 134,617 km/h in uscita dai 400 metri con partenza da fermo, 186,245 km/h all’uscita del chilometro e 213,512 km/h all’uscita del miglio (1.609 metri). Nel 1994 arrivò la vittoria alla Bott di Daytona, cui seguirono il primo e secondo posto assoluti nel Campionato SBK neozelandese.
Era un vero animale da gara, la creature del geniaccio di Christchurch, che personalmente ho avuto il piacere di conoscere a Monza un bel po’ di anni fa. E naturalmente conservo con orgoglio anche la mitica t-shirt ufficiale che acquistai dallo stesso Britten (la stessa che aveva regalato a Joey Dunlop quando provò la sua moto al TT). Ed ero davvero emozionato quando John avviò la sua creatura dal rombo di tuono sistemata su due rulli mossi dalle ruote del suo furgone. Era un vero spettacolo osservare, e ascoltare, il pilota Andrew Stroud che fiondava la V1000 fuori dalla seconda curva di Lesmo e dall’Ascari con un’accelerazione fulminante, lasciando di stucco parecchie altre conclamate superbike. Ed è triste ricordare, come ci ha raccontato lo stesso Crepaldi, che la Britten nel 1995 si aggiudicò autorevolmente il campionato australiano BEARS (British, European, American Racing and Supporters) pochi giorni prima che il suo creatore se ne andasse.
..son sempre i migliori che se ne vanno
ma