Massimo Clarke: "Scrambler forever"
Ducati ha appena presentato la sua nuova Scrambler. L'occasione è quella giusta per raccontare la storia della prima versione.
Grande classico della migliore scuola italiana e formidabile protagonista dei primi anni Settanta, lo Scrambler ha le sue origini nelle prime moto da fuoristrada realizzate a Borgo Panigale. Si trattava di alcune 175 che in Italia erano destinate ad impiego crossistico e dalle quali è stata subito ricavata una versione destinata al mercato USA, dotata di faro e di targa e quindi impiegabile su strada. Ne sono state costruite pochissime, mentre la 200 Motocross (questa era la denominazione della casa) apparsa a pochi mesi di distanza è stata prodotta in numeri che cominciavano ad essere interessanti. Questo modello era destinato fondamentalmente al mercato nordamericano, che stava diventando sempre più interessante per la casa bolognese, grazie al dinamismo dell’importatore Berliner, che disponeva di grandi mezzi e di una valida rete commerciale. La successiva 250 Scrambler, commercializzata a partire dal 1962, è nata proprio in seguito a una sua specifica richiesta. Si trattava di una moto che oggi verrebbe definita enduro stradale. Il faro e l’impianto elettrico potevano essere rimossi agevolmente per impiegarla in gare sullo sterrato o nel deserto. Il serbatoio aveva una forma tondeggiante e una colorazione azzurro e argento.
Nel 1964 sono arrivati il cambio a cinque marce e un nuovo serbatoio, ma solo nel 1967 l’estetica è diventata analoga a quella delle Scrambler che tutti conosciamo, ovvero a quelle azionate da un monocilindrico della serie a “carter larghi”. Fino ai primi mesi del 1968 la 250 Scrambler è stata dotata del telaio con singolo tubo posteriore discendente di grande diametro, nel quale era alloggiato il fulcro del forcellone ed erano ricavati due attacchi del motore, ancora della serie a “carter stretti”.
Nuovi motori e comincia l'avventura
Nella primavera del 1968 a Borgo Panigale sono entrati in produzione i nuovi monocilindrici di 350 e di 250 cm3 a carter larghi, presentati al salone di Colonia dell’anno precedente, e con loro hanno esordito i nuovi Scrambler, che hanno avuto uno straordinario successo anche in Italia, oltre che negli USA, e che hanno dato un contributo fondamentale alla creazione della leggenda Ducati. La versione di 450 cm3 è arrivata nel 1969. I motori di questa serie, punto finale della evoluzione degli straordinari monocilindrici monoalbero con comando della distribuzione ad alberello e coppie coniche progettati dall’ing. Taglioni, riprendevano le stesse soluzioni tecniche già impiegate nei modelli precedenti, rispetto ai quali avevano però subito una completa rivisitazione, al punto che i componenti intercambiabili erano davvero pochissimi. La differenza principale, per quanto riguarda l’aspetto esteriore, era costituita non tanto dalla larghezza del basamento (la diversità era in effetti assai modesta), quanto dal fatto che la coppa dell’olio si estendeva per tutta la lunghezza del motore e che gli attacchi posteriori al telaio erano molto più larghi.
Nella testa erano alloggiati l’albero a camme, che ruotava su due cuscinetti a sfere, le due valvole, inclinate tra loro di 80°, e i bilancieri a due bracci con riporto di cromo duro sul pattino. Le guide e le sedi delle valvole, che venivano richiamate da molle a spillo (i monocilindrici Ducati sono stati gli ultimi motori motociclistici di serie a impiegarle), erano installate con interferenza. Il cilindro, in lega di alluminio come la testa, era dotato di una canna riportata in ghisa, del tipo con bordino di appoggio superiore. L’albero a gomito di tipo composito era in tre pezzi (due semialberi più il perno di manovella), uniti per forzamento alla pressa, e poggiava su due cuscinetti di banco a sfere, più un terzo “ausiliario”, di modeste dimensioni, montato nel coperchio laterale sinistro del basamento. Il pistone forgiato (autentica raffinatezza!) era collegato all’albero a gomito da una biella in acciaio da cementazione, la cui testa lavorava su rullini ingabbiati. L’estremità destra dell’albero a gomito azionava la pompa dell’olio, unitamente all’ingranaggio del ruttore di accensione; inoltre, tramite una coppia di ingranaggi conici, muoveva anche l’alberello verticale di comando della distribuzione (diviso in due parti che si univano per mezzo di un innesto a baionetta). Una seconda coppia conica trasmetteva il moto dall’alberello verticale all’albero a camme.
La trasmissione primaria a ingranaggi era posta sul lato sinistro e inviava il moto al cambio a cinque marce, del consueto tipo in cascata, tramite una frizione a dischi multipli lavorante in bagno d’olio.
A corsa corta il 250 e il 450
Il motore di 250 cm3 aveva un alesaggio di 74 mm e una corsa di 57,8 mm. Esteriormente si distingueva per il cilindro dotato di otto alette e per la scritta 250 sul coperchietto posto sul lato sinistro della testa, subito sopra la candela. Dal punto di vista tecnico altre differenze, rispetto ai motori a carter larghi di maggiore cilindrata, erano costituite dalle valvole più piccole (da 36 mm alla aspirazione e da 33 mm allo scarico) e dall’albero a gomiti con volantini discoidali.
Nel 350 le misure caratteristiche erano pressoché quadre; passavano infatti a 76x75 mm. La valvola di aspirazione era da 40 mm e quella di scarico da 36 mm; il cilindro, più alto, era dotato di nove alette. Diverso era il rapporto della trasmissione primaria, che impiegava anche un materiale differente (si passava dalla ghisa all’acciaio) da quello della 250 per la corona, realizzata di pezzo con la campana della frizione. Sul coperchietto sinistro della testa spiccava la scritta 350. L’albero a gomito aveva un volantino discoidale e uno con una conformazione “a mannaia”. Il carburatore era da 29 mm.
Il 450 (la cilindrata esatta era 436 cm3) aveva un alesaggio di 86 mm, che veniva abbinato alla stessa corsa del 350, ossia 75 mm. Il cilindro era però più alto e dotato di 10 alette (la cosa era resa possibile dalla adozione di una biella più lunga). Pure in questo caso le valvole erano da 40 e da 36 mm e il carburatore da 29 mm. L’albero a gomito aveva entrambi i volantini “a mannaia”, anche se di dimensioni differenti.
Le teste con distribuzione desmodromica (primo esempio mondiale di questa soluzione, per quanto riguarda i motori di serie!) hanno fatto la loro comparsa nell’autunno del 1968 sui modelli Mark 3 D di 250 e di 350 cm3. In seguito per un certo periodo sono state disponibili come optional anche per gli Scrambler (con un sovrapprezzo di 36.000 lire), ma sono stati davvero pochi quelli che le hanno richieste.
Tra gli step evolutivi di maggiore significato a livello motoristico, per quanto riguarda i monocilindrici a carter larghi, vanno ricordati l’adozione di due cuscinetti di banco di eguali dimensioni, dalla metà del 1970 (in precedenza quello destro era più piccolo), il passaggio alla accensione elettronica (Ducati o Motoplat) da quella a ruttore e, proprio nell’ultimo periodo di produzione, l’impiego di una biella con cuscinetto di maggiori dimensioni (già un aumento del diametro del perno di manovella c’era stato per il 250 e il 350 alla fine del 1968).
Culla aperta
Il telaio degli Scrambler era a culla aperta, con un tubo superiore di grande diametro e che si univa a una struttura posteriore realizzata con tubi più piccoli, che scendevano da entrambi i lati per unirsi alle piastre nelle quali erano realizzati gli attacchi per il motore e per il fulcro del forcellone oscillante. Anteriormente c’era un tubo singolo che scendeva dal cannotto di sterzo per andarsi a fissare al basamento. Le sospensioni erano allo stato dell’arte, con due ammortizzatori e la forcella di fabbricazione Marzocchi dotata di soffietti in gomma. La ruota anteriore, munita di un freno a tamburo da 180 mm, era da 19 pollici e la posteriore da 18.
Nel 1973 sul 350 e sul 450 Scrambler hanno fatto la loro comparsa un freno anteriore a quattro ganasce, con doppio piatto portaceppi (eguale a quello impiegato sui modelli Desmo), e una forcella a canne scoperte. Più o meno nello stesso periodo hanno cominciato ad essere impiegati per le versioni di 250 e 350 cm3 motori costruiti in Spagna dalla Mototrans (il 450 è sempre stato fabbricato solo in Italia). Questi monocilindrici esteriormente si distinguono da quelli prodotti a Bologna solo per l’assenza della dicitura “Made in Italy” sul coperchietto ovale di accesso al registro della frizione (collocato sul lato sinistro).
La fabbricazione degli Scrambler è andata avanti fino alla fine del 1974, quando i numeri di vendita erano ormai diventati molto modesti. Nei primi mesi del 1975 le linee di lavorazione sono state smantellate; al loro posto dovevano essere allestite quelle degli sfortunati motori a due cilindri paralleli.
Colorazioni differenti
Gli Scrambler non sono scomparsi subito dalla scena ma hanno continuato ad essere venduti per diverso tempo, in modo da smaltire le giacenze di magazzino (erano ancora in listino nel 1976). Si trattava di alcune centinaia di pezzi; ben poca roba, in confronto alle migliaia di unità che in precedenza venivano commercializzate annualmente. E’ stato in questo periodo che sono apparse colorazioni “anomale” come blu e verde, utilizzate come ultimo incentivo alle vendite. I colori storici degli Scrambler sono giallo canarino (carico e tendente all’ocra) per il 250, arancione per il 350 e giallo limone per il 450. In totale gli esemplari prodotti, di tutte le versioni, sono stati più di 35.000. Sembra che qualche decina di moto sia stata assemblata, utilizzando i ricambi disponibili, ancora nel 1977-78, per soddisfare le richieste di alcuni concessionari.
@Doc430
Questa affermazione è delirante. In Italia non sappiamo nemmeno cosa sia il comunismo progressista, figurati il socialismo reale. Semmai si è trattato - come oggi finmeccanica - di una storia di depressione da malaffare e tangenti varie, governo DC/PSI, ovvero i papà degli attuali cavalieri preguidicati. Quindi progenitori del liberismo di destra. Parliamo di moto, per cortesia, e prima di scrivere informiamoci
450 RT