Massimo Clarke: “Una 4 cilindri tra Barcellona, Bologna e Pesaro”
Per lungo tempo la Mototrans ha prodotto in Spagna moto su licenza Ducati. In alcuni casi ha sviluppato modelli diversi da quelli costruiti in Italia, e le differenze non sono state solo di natura estetica. Basta ricordare moto come la bellissima 24 Horas e, negli anni Settanta, i modelli Forza e Vento.
Quando ha fatto la sua comparsa la quadricilindrica da Gran Premio di 250 cm3 (per la quale era inizialmente prevista anche una versione di 350 cm3, mai materializzatasi), sono stati in molti a pensare che la moto fosse stata progettata dalla Ducati. Le cose stavano però ben diversamente, anche se il motore bialbero a quattro cilindri era effettivamente stato disegnato in Italia.
Ancor oggi, si trovano libri sulla casa di Borgo Panigale nei quali si parla di questa Mototrans da competizione, che però con l’azienda bolognese non c’entra proprio nulla.
Al Montjuich e ritorno
Negli anni Sessanta la 24 ore del Montjuich era la più importante (e impegnativa) gara internazionale di velocità sulle lunghe distanze. In Spagna, dove essa costituiva l’evento nazionale di maggiore portata, erano anche assai popolari le gare di velocità sui circuiti stradali. La Mototrans era molto attiva su entrambi i fronti. Il suo pilota di punta è stato a lungo Ricardo Fargas. Dall’Italia sono però arrivati, per rendere ancora più competitive le monocilindriche monoalbero, alcuni piloti di grande valore. In particolare, Bruno Spaggiari, che per tanti anni ha legato il suo nome a quello della Ducati, si è stabilito a Barcellona per diverso tempo. Una sua importante vittoria è stata ottenuta proprio nella massacrante 24 ore del Montjuich, in coppia con Mandolini, nel 1964 alla guida di una Mototrans 250 appositamente preparata. La cilindrata era stata portata a 284 cm3 mediante maggiorazione dell’alesaggio, passato a 79 mm dagli originali 74. Su questa moto aveva lavorato il bolognese Renato Armaroli, che in precedenza aveva prestato la sua opera nei reparti corse Mondial, Ducati e Benelli (mica male, come curriculum!) e che proprio Spaggiari aveva invitato a trasferirsi in Spagna per lavorare all’ambizioso programma tecnico-sportivo della casa catalana.
Nel 1966 è arrivata la notizia di una straordinaria quadricilindrica da Gran Premio, che avrebbe dovuto essere realizzata nelle cilindrate di 250 e di 350 cm3. Il progetto però non era nato né alla Ducati né alla Mototrans. Il disegno originale era infatti stato tracciato nel 1965 dall’ing. Aulo Savelli ed era stato successivamente sviluppato principalmente da Armaroli, che aveva lavorato con lui alla Benelli fino a poco tempo prima. Savelli aveva lasciato la casa di Pesaro (dove si era trasferito poco dopo essersi laureato, nella seconda metà degli anni Cinquanta) per aprire un proprio studio di progettazione e consulenza nel 1963. Quella di rivolgersi a lui, che già aveva progettato un 250 di analogo frazionamento e di eguale cilindrata (quello dalla Benelli da GP), per disegnare un nuovo motore da competizione a quattro cilindri era quindi una scelta più che logica.
La nuova Mototrans, costruita a Barcellona, dopo essere stata provata in grande segreto è stata schierata nel Gran Premio di Spagna del 1967 con Spaggiari alla guida. L’esordio non è stato dei più felici ed è terminato con un ritiro causato da un problema alla frizione, ma la moto ha messo in mostra interessanti potenzialità. La 250 catalana è stata poi messa in naftalina per un certo periodo, ma sembra che sia stata nuovamente impiegata in alcune gare nazionali. Problemi economici (i progetti ambiziosi costano!) e cambiamenti nelle strategie aziendali stabiliti dalla nuova dirigenza hanno infine portato alla cancellazione del programma di sviluppo. La Mototrans ha abbandonato l’attività agonistica a livello ufficiale nel 1969, anno nel quale Armaroli ha fatto ritorno in Italia.
Dal punto di vista tecnico il motore presentava alcune interessanti particolarità. In un certo senso poteva essere considerato il risultato dell’unione, impiegando uno stesso basamento, di due bicilindrici paralleli. Venivano utilizzati due alberi a gomito, di tipo composito e con manovelle a 180°, in presa con uno stesso albero ausiliario che provvedeva ad inviare il moto alla frizione per mezzo di una coppia di ingranaggi. Anche le teste bialbero erano due, mentre i cilindri erano singoli (ossia costituiti da fusioni individuali). Assolutamente unico era il comando della distribuzione, che prevedeva due cascate di ingranaggi, ovvero una per ogni testa! Le due valvole di ciascun cilindro erano inclinate tra loro di 63°. Anche il basamento era decisamente particolare. Era infatti costituito da una unica fusione in lega di alluminio che veniva chiusa inferiormente da un coperchio avente la forma di una vera e propria “piastra” e che veniva completato dalla coppa dell’olio. I supporti di banco, dotati di cuscinetti a rotolamento, erano dotati di cappelli che venivano fissati mediante viti. L’alesaggio era di 44,5 mm e la corsa di 40 mm (misure quasi identiche a quelle della Benelli 250!); la potenza veniva indicata, ottimisticamente, in una cinquantina di cavalli a un regime dell’ordine di 14.000 giri/min.
L'enduro Yak e la Ducati
Se per il 250 quadricilindrico da GP si è parlato subito di una progettazione italiana, per il monocilindrico dello Yak, enduro stradale che può essere considerata l’autentico “canto del cigno” della casa spagnola (divenuta MTV al termine degli anni Settanta), la storia è totalmente diversa. Le cose stanno proprio all’opposto di quanto è stato detto all’atto della presentazione. Altro che progettazione effettuata interamente all’interno della azienda di Barcellona. In questo caso la Ducati c’entrava eccome! Non è certo però in quale misura essa sia stata coinvolta nel progetto. Forse la direzione generale non ne sapeva nulla, e quindi non esiste un coinvolgimento diretto, ma sembra che almeno alcuni disegni siano stati tracciati nell’ufficio tecnico della casa bolognese. Poi magari il grosso della progettazione (se non proprio tutta, quindi) è stato fatto all’esterno, ovvero a casa del disegnatore, che fino alle 18 nei giorni feriali lavorava alla Ducati. Questo, stando a quanto mi è stato confermato da più di una fonte.
Quasi tutti i componenti del primo prototipo sono stati realizzati a Bologna, dove sarebbe stato anche assemblato il primo prototipo, operazione effettuata in grande segretezza all’interno di una nota officina. La leggenda vuole che, non essendo pronto per le prime prove il nuovo cambio, sia stato impiegato quello di una Husqvarna… Secondo una fonte, quello realizzato in Italia sarebbe stato un motore di 350 cm3 (misure caratteristiche = 79,5 x 70 mm) che poi il tecnico della casa spagnola Millet avrebbe modificato, forse con la consulenza di Franco Farné, adottando un alesaggio di 86 mm e apportando alcune variazioni di dettaglio. La cosa non è comunque certa.
A ogni modo, la MTV Yak 410 doveva essere la risposta della casa spagnola alla Yamaha XT 500, che stava aprendo l’era delle grosse enduro stradali monocilindriche a quattro tempi. Un’ottima idea, che purtroppo non ha avuto successo. Il progetto era valido, ma aveva un unico punto debole, e questo ha avuto conseguenze nefaste. Il motore aveva la distribuzione monoalbero desmodromica (cosa che, aggiunta all’inconfondibile aspetto della testa e dei bilancieri, tradisce immediatamente l’origine ducatesca), con due valvole inclinate tra loro di 60°, proprio come quelle del Pantah. La parte inferiore del motore prevedeva un albero a gomito composito, che lavorava interamente su cuscinetti a rotolamento, e una trasmissione primaria a ingranaggi. La lubrificazione era a carter umido. Per questo motore si parlava di una potenza di circa 39 cv a un regime dell’ordine di 8.500 giri/min. Pare che in effetti fossero circa 34 alla uscita del cambio.
Come detto, c’era un punto debole. Si trattava del comando della distribuzione, affidato a una cinghia dentata posta sul lato sinistro che, forse per ragioni di compattezza, veniva fatta lavorare in bagno d’olio. Qui occorre sottolineare che una delle norme fondamentali, per quanto riguarda questi organi di trasmissione, è che essi devono lavorare a secco, e in particolare non devono entrare in contatto con alcun derivato del petrolio. Solo molto di recente sono apparse alcune cinghie che possono svolgere il loro compito in bagno d’olio, essendo realizzate con materiali specificamente studiati per questo tipo di impiego. Gli americani le chiamano “wet belts” o BIO (belt-in-oil). La loro diffusione è comunque ancora molto modesta.
Chi aveva progettato il motore dello Yak evidentemente pensava che, dietro specifica richiesta, le industrie del settore avrebbero potuto realizzare agevolmente e in tempi brevi cinghie in grado di lavorare senza problemi in bagno d’olio. Evidentemente si sbagliava...
Pare che nei (pochissimi) motori effettivamente costruiti, la durata della cinghia in alcuni casi fosse dell’ordine di un migliaio di chilometri soltanto. Se a questo si aggiungono uno sviluppo affrettato, problemi di lavorazione e un controllo qualità approssimativo, le ragioni dell’insuccesso commerciale sono subito evidenti.
La MTV, fondata nel 1978 (poco prima della presentazione dello Yak) è scomparsa definitivamente dalla scena circa cinque anni dopo. I problemi finanziari erano però iniziati già attorno al 1981. I diritti relativi allo Yak sono poi stati acquisiti dalla Merlin (“antenata” della Gas Gas), unitamente alle attrezzature per la produzione. Che effettivamente è iniziata, con la realizzazione tra il 1985 e il 1987 di svariate decine di moto che, denominate DG 11, erano piuttosto diverse come ciclistica ed estetica dallo Yak originale. Con la consulenza di Francesco Villa era stata anche studiata una trasformazione a catena del comando della distribuzione (un motore così modificato è stato poi impiegato nell’unico esemplare di Alfer-Villa costruito). Purtroppo, era ormai troppo tardi.
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amarone21, San Pietro in Cariano (VR)ovviamente parlo della cinghia dentata in bagno d'olio...
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amarone21, San Pietro in Cariano (VR)Massimo, ma come è possibile un errore di progettazione così macroscopico. Come si può spiegare?