Mondiale C-CR, Rally OiLibya del Marocco. Giuseppe Recchi, l’appassionato che viene da un altro Mondo
Come è nata l’idea di partecipare al Rally del Marocco?
«L’idea è nel progetto dell’Eni di allargare la propria partecipazione nel mondo dei motori, che già comprende la Moto GP e la Superbike, anche al Fuoristrada. Moto GP e Superbike sono dei mondi molto professionali. Nel fuoristrada, e nei Rally, al forte elemento professionale dei Piloti e dei Team ufficiali, si unisce il Mondo degli appassionati, che possono iscriversi e partecipare alle gare di un Mondiale, con budget quindi più accessibili. L’Eni è unita all’utente attraverso i suoi prodotti, perché tutto quello che facciamo sulle piste lo facciamo anche per l’utente della strada. Il messaggio lanciato dal mondo del Fuoristrada è stato raccolto da Eni, e Eni mi ha proposto, conoscendo la mia passione, di unirmi a questa spedizione facendo il testimonial della Società. Ho accettato la proposta con grande entusiasmo perché sono un appassionato di moto. In Marocco, il nostro obiettivo è di arrivare in fondo. Ovviamente io sono un amatore, e ho passato poco tempo a prepararmi, un po’ fisicamente, un po’ allenandomi con la moto. Nel Team italiano FreeRacing abbiamo trovato un pacchetto completo che rappresentava il messaggio che noi volevamo portare».
Personalmente, Giuseppe Recchi, a che background motociclistico può fare riferimento?
«Giuseppe Recchi è un appassionato, sin da bambino, con la storia di molti appassionati di moto. Un appassionato che voleva andare in moto, ma i genitori non gliela compravano, e pian piano ha cominciato con il fuoristrada, che in genere è il primo approccio. Ho fatto il regionale di motocross, limitandomi ai Campionati regionali da ragazzo, fino a 20, 23 anni. Nel 2005, o quegli anni lì, ho fatto un’esperienza in pista, partecipando per quattro o cinque anni a un campionato con le Triumph Thruxton, delle moto moderne ma in chiave vintage. Era un campionato molto bello, perché era accessibile, c’erano Piloti forti e meno forti, e uno riusciva a divertirsi pensando di andare forte, sempre senza correre troppi rischi. Questo è un po’ il mio curriculum. Se rinascessi, vorrei fare il Pilota professionista».
E magari a tempo pieno…
«A tempo pieno, certo. Ho sempre invidiato molto i grandi talenti, ma partecipando alle gare ho visto che c’era un gap incolmabile tra quello che ero e che volevo essere, quella “manetta” che invece ha soltanto qualcuno. Non te ne rendi conto se non lo fai. Lo vivi in pista ma qui, nel Rally, è una cosa impressionante. Qui portiamo a termine le prove a un’ora e mezzo dal primo, su quattr’ore di gara, e vi assicuro che non andiamo piano, anzi a noi sembra di andare forte. Prendiamo anche qualche rischio, e alla fine arriviamo sfiniti. I primi sono anche più giovani, certo, però vuol dire che vanno fortissimo, che tagliano tutti gli angoli, che corrono come si direbbe in pista sempre sui cordoli, e non sbagliano una nota. La difficoltà del Rally è questa. Credo che in ambito motociclistico il Rally-Raid sia lo Sport più completo, perché unisce al talento vero, che è lo stesso della pista, una formidabile e continua attenzione mentale alle note del road book. Veramente un lavoro di stress di navigazione fortissimo, perché le note ti arrivano sotto le ruote una dopo l’altra, velocissime, e non le devi sbagliare, talvolta non le puoi sbagliare».
Quali sono le sensazioni, quelle attese e quelle nuove, di questa esperienza?
«All’inizio credevo che fosse dura arrivare in fondo, ma che facendo un po’ di dieta, un po’ di jogging e un po’ di moto, alla fine potesse essere abbastanza simile all’enduro della domenica. Invece mi sono reso conto che è veramente uno sforzo sovrumano. C’è una ragazza nel nostro Team, Giada Beccari, non so come faccia. La moto, quando cadi, solo sollevarla ti fa entrare in un loop di stanchezza dal quale non riesci più a venire fuori. La fatica c’è in tutti gli Sport, ma qui è ancora di più. Più vai forte e più è facile, tieni la moto con il motore, la fai galleggiare e non subisci il terreno. Solo che andare forte… non è facile per niente! Oggi, per esempio, la tappa era piuttosto veloce, all’inizio, e noi siamo partiti abbastanza forte. Un bel passo, passavamo gente davanti a noi. Poi siamo entrati nelle dune, quindi in un lunghissimo tratto di fesh-fesh. Dovevamo guidare molto in piedi e ciò nonostante subivamo il terreno. Poi siamo entrati di nuovo nella sabbia, e lì se non vai forte non galleggi, e si ricomincia, t’imbarchi, prendi rischi. Sono venuti a prendere un Pilota con l’elicottero, abbiamo visto una macchina rovesciata. Nel Rally vivi situazioni che diventano drammatiche all’improvviso. Devi sempre pensare che di colpo possa succedere qualcosa per cui tu sei istantaneamente per terra. Rispetto alla pista è più pericoloso, perché i circuiti generalmente sono strutturati anche per la sicurezza. Qui se cadi ti fai male, e devi unire ritmo, velocità, potenza e navigazione. Sì il Rally è lo sport motociclistico più completo».
E dal punto di vista ambientale, dell’atmosfera, che sensazioni offre il Rally?
«È stupendo! L’accoglienza di questo mondo dei motori, della gente che ti vede passare, nei villaggi. I Rally esistono da tanti anni e le persone sono forse più abituate, ma mi viene da pensare a cosa deve essere stata la Dakar. Ho conosciuto persone che si sono fatte tatuare il simbolo della Dakar sulla pelle. Mi avevano stupito, impressionato. Adesso ho capito perché. Oggi noi facciamo Speciali da 250 chilometri, tappe da 400. Alla Dakar potevano essere sette o ottocento chilometri in totale, anche di più, con speciali di 4-500. Almeno il doppio di quello che facciamo noi in questi giorni. E allora non c’erano il GPS, il satellitare, la sicurezza, non c’era l’IriTrack. Non oso pensarci. Chi ha fatto una Dakar di quegli anni era davvero una specie di eroe. Noi italiani abbiamo avuto dei Campioni fortissimi, penso a chi c’è ancora, e a chi non c’è più. È veramente una grande avventura. È qualcosa che mi fa pensare alle grandi traversate oceaniche, ma ancora più forte, perché nei Rally non ci sono mai pause. È come fare il giro del Mondo a vela, sempre con il mare in tempesta».
È un’esperienza isolata, o c’è il pensiero di svilupparla ancora, magari proprio alla Dakar?
«Per me sicuramente è un’esperienza isolata. Per l’Eni è la prima, abbiamo “assaggiato” l’ambiente. Tornati a casa, i nostri responsabili faranno le loro valutazioni e stabiliranno se e quale programma mettere insieme per l’anno prossimo. Per ora pensiamo a Jerez, all’ultima della SuperBike. Poi faremo il punto, e vedremo cosa potrà succedere».
Resterà anche personalmente un’esperienza, o già nasce il desiderio di ripeterla?
«Come in tutte le gare, e in tutte le cose che costano fatica, che si sudano, il primo giorno sei entusiasta, e l’ultimo non vedi l’ora che finisca perché è massacrante. Ti chiedi chi te l’ha fatto fare, ti dici che non tornerai mai più. Sono sicuro che, passato un mese, sarò aggredito dal virus e vorrò tornare. Ma adesso, sono uno che ha cinquant’anni e un altro mestiere da fare. Per cui calma, vediamo intanto come metabolizziamo questa prima volta».
STILE
Tanto di cappello al Presidente motociclista vero!
Siamo troppo abituati a persone ingessate, bloccate in comunicazione istituzionale, che non fanno mai emergere la passione e il lato umano.
Grande Batini per averci fatto scoprire e conoscere questo lato insospettabile del timoniere di Eni!
... che voglia di tornare in sella.
Lamps