OiLibya Rally Marocco. Intervista a Marc Coma
Marrakech, 10 Ottobre. Vedere correre, e vincere, Marc Coma, è un autentico spettacolo, un’esperienza. Nel suo modo di guidare, assolutamente inconfondibile, c’è l’espressione del talento e del lavoro, e la sobrietà della consapevolezza. Il Pilota dei Rally-Raid è speciale, perché il frutto della sua bravura non lo vedi subito, mentre passa, ma 500 chilometri più avanti, quando la tappa è finita. Per questo il Pilota di Rally-Raid bravo non è mai spettacolare, mai “esagerato”, ma sempre redditizio. Quando il Pilota è bravo, contiene gli entusiasmi anche quando taglia il traguardo e vince. Sorride, condividendo la felicità del momento magico e la soddisfazione dei mille momenti “buoni” della giornata, del Rally, del Mondiale appena vinti.
“La verdad es que a sido un poco complicado…” Questo è un “classico”, una delle tue premesse preferite quando sei intervistato. Avresti il coraggio di iniziare così anche questa volta?
Marc Coma. Ah, ah, ah. Piero, è sempre difficile! Siamo a un punto in cui le gare sono sempre difficili. La navigazione è difficile, il ritmo è alto, molti vanno forte, e quindi è così, diventa difficile.
Ma più precisamente, cosa diventa difficile?
«Questa è già la terza “generazione” che ho visto passare, in funzione dalle moto che ho usato. La 690, poi la 690 “piccola”, infine la 450, con le sue evoluzioni. Tre moto diverse, con le quali essere sempre forte non è stato facile. Senza contare che quando sono arrivato ai Rally-Raid era ancora tutto diverso. E tutto questo non è facile, o meglio non è facile passare attraverso mutamenti importanti, adattarvisi e rimanere sulla breccia».
La mitica 690. Che ricordo ne hai?
«La 690! È una moto di cui ho fatto l’intero sviluppo, che sentivo “mia”. La moto con cui io riuscivo a fare la differenza con una certa facilità. Era la moto “over 170 kmHh”, che non tutti erano capaci di guidare alle velocità che consentiva. Poi è arrivata la 450 imposta dai regolamenti, in un certo senso siamo ripartiti da zero, e molti più piloti erano in grado, come lo sono oggi, di “gestirne” le caratteristiche».
Hai detto anche, appena finito il Rally del Marocco, che tutto, cioè vincere e diventare campione del Mondo alla fine quasi senza avversari, poteva sembrare facile, ma che non lo era. Che volevi dire?
«E' un modo di spiegare come sono andate le cose…»
Volevi dire che l’impegno non cambia, ma che in definitiva i tuoi avversari si sono fatti fuori da soli?
«Il fato è che, al di là di tutte le difficoltà fisiche, mentali, meccaniche o della navigazione, alla base della difficoltà c’è la possibilità di commettere un errore. Portare a termine una gara senza mai fare uno sbaglio, non è mai facile. La gente pensa: “Ha dieci punti di vantaggio, il Mondiale è suo, ha praticamente vinto!” Ma non è così. Basta davvero poco per fare dei danni colossali».
Capito, troppo rispetto, anche per avversari che hanno commesso errori grossolani e si sono giocati gare e campionati… passiamo ad altro. Mi pare che tu abbia, ormai, un vantaggio incolmabile, quello di avere una visione globale della corsa che ti consente di affrontarla al meglio, stabilendo a priori, in linea di massima almeno, quale strategia adottare. È vero?
«Provo sempre a guardare la gara con una prospettiva più lontana possibile. Provo a studiare quello che possono fare, e che in condizioni o per quali motivi, gli altri Piloti. È questa la visione globale di cui parli, per me. Fare in questo modo mi aiuta a gestire la gara quando arriva il momento di prendere una decisione, anche repentina sulla base di una situazione che si crea, e di ridurre il minimo la necessità di improvvisare».
È certo che la tua è una vittoria globale anche della Squadra, e che la “Guerra delle Marche” non c’è stata?
«Certo, è anche una vittoria della Squadra, ma la Guerra delle Marche, credimi, c’è già, eccome. L’anno scorso hanno vinto il Mondiale, anche se con una sola gara con la Honda, la Dakar l’abbiamo vinta noi, quest’anno hanno ottenuto due successi Mondiali, Abu Dhabi e Qatar, ma alla fine il Campionato lo abbiamo vinto noi. Arriverà anche la loro vittoria, perché siamo vicini, non è una cosa che non succederà mai. Lavoriamo per … tenere il più lontano possibile quel momento».
A proposito di lavoro. Possiamo considerare finito il lavoro per la Dakar?
«Spero di sì. Siamo a un punto che la Squadra, con Stefan al comando, ha portato a termine un lavoro programmato in modo molto preciso. Gare, test durante la stagione, e alla fine il test-gara qui in Marocco, per vedere che tutto fosse a posto. Le moto vanno via con la nave a novembre, è il segnale che il lavoro è stato fatto bene».
Vedi la prossima Dakar in modo speciale?
«Sinceramente no. La vedo come una Dakar in più. La vedo come una opportunità unica di vincere per la quinta volta, di ottenere il quinto successo e di farlo due vote consecutivamente per la prima volta, cosa che non sono mai riuscito a fare. Ma ci sono cose che stanno prima del vincere, e sono legate alla facoltà di disputare l’intera gara rimanendo concentrato e svolgendo bene il lavoro. La vittoria diventa allora una conseguenza. Penso quindi, prima di tutto, a fare un buon lavoro, non a vincere».
Avere una visione globale della Dakar, però, è un affare, questo sì, “muy complicado”.
«Certo, è una gara lunga tre volte rispetto a tutte le altre. Nello specifico è anche “più complicata” perché una volta eravamo solo io e Cyril (Despres), uno contro l’altro, adesso invece la concorrenza si è ampliata, e costruire una visione globale è ancora più difficile».
È possibile stabilire a priori dei giochi di Squadra per la Dakar?
«Parlarne prima, stabilirlo a priori è molto difficile, se non impossibile. Io penso che oggi noi tutti sappiamo quale è il nostro lavoro e il nostro compito all’interno della Squadra, e questa è una cosa molto importante, perché non sempre in passato è stato così. Poi, si vedrà».
Ti sei fatto un’idea della Dakar 2015?
«Geograficamente non è dissimile da quella dell’anno scorso. Ma sapere dove si va non è tutto. Io spero che sia una Dakar dura, difficile, perché più sarà dura, più sarà meglio per me. L’altitudine è un impegno notevole, per esempio, e correre a 4000 metri è impegnativo, ed è difficile allenare per farlo. Un fattore nuovo della Dakar sudamericana, che non esisteva in Africa. Ha imposto nuovi “standard” a noi e per la costruzione delle moto».
Due Piloti nuovi nella Squadra. Toby Price e Mathias Walkner. Come li vedi e come li hai visti al debutto con la Squadra in Marocco?
«Penso che entrambi abbiamo un grande potenziale. Toby è un “uomo del deserto”, ha fatto la Baja e ha la velocità, e Mathias è un campione del mondo di Motocross, MX3, e quindi tecnicamente è sicuramente buono. Lui ha bisogno di un po’ più di lavoro perché non ha l’abitudine alla velocità. Per entrambi vale la necessità di imparare a navigare, ma siamo qui per questo. In Marocco era prevedibile che Toby si sentisse più a suo agio rispetto a Mathias».
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