I viaggi dei lettori: in moto in Uzbekistan
Ho inseguito sognante i luoghi cult del motociclismo odierno, iniziando con mio padre urlante mentre io partivo per il mio primo Elefantentraffen, in Ciao, a seguire Capo nord, Isle of Man, Ace cafè, Brighton reunion, North West 200, Pinguinos eccetera eccetera, sempre a bordo di mezzi a due ruote alquanto improbabili e con abbigliamento ancor peggio.
Adoravo l’odore dell’olio di ricino bruciato nella miscela del 2T e rimanevo incantato, col naso appiccicato alla vetrina dell’ XT 500, passaporto, a mio vedere, per la libertà, destriero paragonabile al cavallo di Alessandro Magno. Passano i chiometri, le forature, gli anni, restano i sogni, le motociclette sanno appunto di sogni, di garage, di sacrifici, ma ti custodiscono la speranza che il mondo da scoprire sia dinnanzi al loro faro.
Allora pronti via, a girare il mondo, prima l’Europa, poi il Maghreb, poi l’Asia. Ero e rimango un motociclista integralista, no blutooth, no wi-fi, no distrazioni led e tft, manubrio e benzina super, un manovale del manubrio, nome in codice ”motoneurone”. Le mie moto tutte femmine, io unico maschio, harem senza democrazia.
Destinazione Uzbekistan (O’zbekiston), mi fa paura solo a dirlo, controllo la cartina, la mia via della seta attraverserà la Slovenia, l’ Ungheria, l’Ucraina, la Russia, il Kazakistan e infine l’Uzbekistan appunto, costeggiando il Turkmenistan, per raggiungere le città d’arte di Khiva, Buhkara e Samarcanda. Qui visse e giace il Tamerlano (Timur Barlas), discendente diretto di Gengis Khan, egli rappresentò culmine e declino delle stirpi che rappresentò e che aveva riunito, dai turcomanni ai mongoli, dai persiani agli indiani, conquistò l’Asia intera.
Socio di sventura e di amicizia, il condottiero Ortolan Stefano da Bologna, montato su Alabama, esemplare Bmw di rara bellezza, reduce da un viaggio in IRAN, esperto motociclettaro e culo di ferro.
La notte prima della partenza è come la notte prima degli esami, forse ho dormito già con gli stivali, troppo teso; la mia moto, Tempesta, attende sbruffona lo start, io cerco più volte di calmare il suo atteggiamento, ricordandole l’importanza di essere umili di fronte ad un’avventura simile, lei.. se ne frega e ringhia ad ogni aperura di gas, la comprendo, è molto giovane. Mille bandiere, come fossero cicatrici da mostrare in battaglia, fanno bella vista sulle borse laterali, mille patch di stati attraversati sono cucite sul mio petto, come fossero gradi su di una divisa. La mia piccola cagnetta , accucciata vicino agli stivali osserva triste i miei ultimi preparativi.
A seguire pioggia pioggia pioggia sino al confine Triestino dove incontro il mio pard ( come avrebbe detto Tex Willer ), un abbraccio silenzioso, l’adrenalina in eccesso schiuma come lambrusco nelle vene, apponiamo i bollini autostradali sui parabrezza e, come Benigni e Troisi, dopo aver pagato un fiorino, partiamo. Passa veloce la Slovenia, scorre l’Ungheria, corriamo su strade biliardo colorate ai fianchi da boschi verdi come il bagnoschiuma famoso, si costeggia il lago Balaton e si arriva al confine con le terre di Ucraina; mi dico: ”di qui in poi saranno cavoli!”, i documenti non vanno bene, le moto non vanno bene, gli agenti urlano, poi come fosse temporale estivo, tutto passa e siamo di là, esatto, prima eravamo di qua, ora mentalmente e fisicamente saremo di là.
Ucraina, terra fatta di città incantevoli e giovani bellissimi (non è una diceria), siamo stupiti da Leopoli e incantati da Kiev e dalle sue cupole verdi argento. Nessuno parla dei dissidi bellici con i Russi, ma l’effigie di Putin raffigurata sulla carta igienica è sufficientemente emblematica. I chilometri si dilatano sotto uragani liquidi di pioggia battente e gli animi, poco per volta, si puliscono dalle scorie inutili, e si rimane nudi di fronte all’essenzialità delle cose, ci si rende conto che ci si accontenta di poco, un piatto di minestra calda, una ciambella di pane che ci viene offerta in un self service di fortuna da una famiglia umile e visibilmente povera.
Il pane è passaporto universale, e lo spezzare il pane con degli sconosciuti è gesto antico, forse il significato della parola viaggio è qui. Campi di grano infiniti, campi di girasole infiniti e giunge l’ora di entrare nel ventre della grande madre Russia, la pioggia, non so perché, accompagnerà sempre gli attraversamenti frontalieri, l’appuntamento doganale questa volta risulterà estenuante, otto volte otto i documenti compilati in cirillico verranno stracciati e ricompilati, la nostra inossidabile calma zen messa alla prova, rivoltati come fossimo narcos, siamo cotolette impanate di polvere pioggia e stanchezza, ma la bandiera tricolore legata al mio bauletto ostenta orgoglio, a ricordare a tutti che siamo italiani.
Le strade sembrano bombardate di fresco e le distanze scorrono in maniera quasi automatica, siamo chiappe di ciclista allenato, indolori. Mangiamo giorni e polvere nel sud della Russia e arriviamo a Saratov.
I marciapiedi di Saratov sono sterrati e accidentati, crocchi di signore ciaccolano nella sera estiva, piccole case di legno verdi con luci giallognole tremolanti mi incantano, siamo distanti. I russi hanno un carattere di pietra e sarà una costante di questa terra, molti mostrano una faccia arrabbiata dalla nascita, imparano a essere duri da bambini, come volessero difendersi da qualcosa o da qualcuno.
I paesini sono fatti solo da una fila di case, dall’ aspetto vagamente liberty e donne con vestiti a fiori vendono frutta, non in cassette bensì in secchi, la frutta e la verdura vengono vendute a secchi, unità di misura nuova per noi. Barattiamo t-shirt e vecchi jeans per mele selvatiche e miele, barattiamo gesti e sorrisi, mangiamo seduti bordo strada un pezzo di favo appena raccolto, ora so cosa prova un orso marsicano dopo aver violato un ghiotto alveare!
Il confine Russo Kazaco risulta particolarmente duro, come da copione piove, ma ormai abbiamo il callo da sopportare ogni angheria e sorridiamo di fronte all’ufficiale addetto al controllo passaporti, che dorme beato per terra dietro al pc. Nitriti e muggiti provengono dall’adiacente mercato bestiame dove il tempo pare essersi fermato in un film degli anni 30, fruste, mercanti, ladri e truffatori.
Il Kazakistan è enorme, il Texas dell’Asia, grande quanto l’Europa, il suo benvenuto è un arcobaleno colossale a far da cornice a una steppa infinita, cavalli e cammelli. La strada è un serpente nero di fronte a noi, nessun motociclista, nessun turista, nessuno straniero, a poco a poco scompaiono i fili della corrente e del telefono. La stanchezza non si sente, siamo in un limbo dove l’unico pensiero è non mollare e si avverte nitidamente il gusto di essere lontani, di essere particelle di uno stesso atomo, i luoghi tappa sono epici, bar con tappezzeria fatta di carta moschicida, divani comuni dove gente dorme come se non dormisse da settimane. Caldo e sete, beviamo bevande che scimmiottano le bevande gassate occidentali, ma almeno sono ghiacciate; questi kazaki hanno una dieta che definirei simil mediterranea, fatta di cibi freschi e semplici, insalate, zuppe, ravioli placano la nostra fame latina.
I tir che incrociamo sulle strade sono KAMAZ, quelli che da sempre vincono e stravincono le Parigi-Dakar, immortali. Seguendo loro, andiamo verso sud, verso la tappa che sarebbe stata la più dura ed epica della nostra vita. Giungiamo a Nukus, ultimo avamposto Kazaco, terra di nessuno, cani randagi, vacche magrissime libere; compriamo le taniche per la broda (benzina in piemontese) e le assicuriamo con corde elastiche e fascette alle moto, sembrano asinelli da soma carichi d’olive a fine raccolto
La sveglia sarebbe stata all’alba, ma non era per affrontare la sfida all’Ok Corral, peggio, ci attendeva il tragitto Nukus-Khiva, circa 650 chilometri di niente con in mezzo la dogana Uzbeka. Mangiamo cena in un asilo convertito per l’occasione in hamburgeria, si pattuisce con il proprietario dell’albergo il prezzo e l’ora della colazione, “mi raccomando! Ci alzeremo presto!”. Al mattino, il proprietario non si trova, lo scorgiamo dormiente e ronfante sul divano vicino all’ingresso, niente colazione. 70 chilometri di sterrato devastato ci portano alla frontiera nella luce dell’alba, parcheggio la moto, entro a passo deciso in quello che mi sembrava essere un locale di ristoro, ma è una moschea all’ora di preghiera, anche qui niente colazione.
Forza! Avanti, voi con le moto, i gesti paiono dire questo, attraversiamo un guado disinfettante e maleodorante che arriva al motore, veniamo osservati da capo a piedi come fenomeni da baraccone, perquisiti, interrogati, annusati da cani antidroga per nulla amichevoli, alla domanda riguardo la nostra provenienza rimangono attoniti, Italia!!?? THAT’S IMPOSSIBLE! Invece è vero caro mio! Controllano i nostri libri, le nostre medicine e durante queste operazioni di rito che portano via preziose ore di viaggio, scorgo la strada oltre la sbarra, nulla e nessuno, nessuno e nulla, no bar, no benzina assolutamente, no cibo, no acqua, no case, no cose, no persone.
La carrareccia sembra studiata ad arte per distruggerti psicologicamente e fisicamente, ho sempre fatto enduro e fisicamente sono tutt’altro che un fuscello, ma dopo soli 50 chilometri siamo esausti e sinceramente preoccupati per la tenuta dei mezzi, ho paura che si stacchino letteralmente le borse, che si crepi il cannotto di sterzo, che deformino i cerchioni. Cerco di mantenere calma e metodo, tappe fisse per riposare e idratazione, dimostratasi poi fondamentale per la tenuta fisica. Acqua e Sali minerali, quelli non mancavano mai e non devono mancare, hanno fatto la differenza in un tratto così ostico.
Incrociamo un’auto che ha appena avuto un incidente molto grave con un cavallo, rallentiamo per vedere se ci sono feriti nell’abitacolo, l’autista scende, visibilmente ubriaco, fa pipì in mezzo alla strada, vicino alla carcassa equina, scena molto pulp. Accertata l’incolumità del guidatore e la morte purtroppo del cavall (sono veterinario per grandi animali), si riparte e, con la forza a questo punto trovata raschiando il fondo del barile della volontà, si approda a Khiva, paradiso di cultura e civiltà antichissima, bella come un’oasi, fatta di ceramica e mattoni, torri e porte cesellate, nessun umano turista, nessun mc Donald.
Bellezza architettonica che premia le nostre fatiche, parcheggiamo le moto oltre le mura, al riparo dal sole cocente dietro lenzuola bianche stese, odore di bucato, odore di casa. Fortificazioni rivestite di maiolica blu proteggono dall’occidente contemporaneo bellezze ancora incontaminate, gli occhi si riempiono golosi di immagini a noi sconosciute, un Islam discreto e per nulla invadente ci accompagna nella terra di Timur lo zoppo.
Buhkara, la città a seguire, si mostra a noi dopo 500 chilometri di voragini stradali, l'asfalto craterizzato non permette distrazioni ed è difficile abbandonarsi alle bellezze dei campi di cotone circostanti. Il cielo è terso e azzurro, falchi e falchetti di diversa foggia e dimensione sfrecciano felici in ogni direzione, noi facciamo altrettanto su pneumatici rotolanti. Ci abbandoniamo ad una serata da turisti, mangiando al ristorante al di sotto di torri eburnee dalla bellezza imbarazzante, illuminate a giorno, agorà di ceramica azzurra ci lasciano a mascella cadente e ci addormentiamo ancora sobbalzanti per l‘indigestione di buche.
Un cartello stradale impolverato mi aspettava, puntuale, mi aspettava da sempre, una scritta:”SAMARKAND”, foto di rito, di quelle che si lasciano ai nipoti, gongolanti, piano piano ci assaporiamo l’arrivo, crocevia reale della silk way, ove possiamo ammirare il Registan, del 1400, tre madrase islamiche, simbolo iconico della città, patrimonio dell’umanità, poco lontano, la tomba di Tamerlano custodito da un sarcofago di giada verde, facciamo scorpacciata di tutto ciò che vedo e riesco a vedere, alcuni senza tetto, con sacchi di immondizia al seguito, raccolgono bottiglie di plastica, auto di ricchi europei partecipanti al famoso Mongol rally scattano foto come turisti allo zoosafari.
Noi non siamo così e ne sono contento, ho i guanti bucati e dormiamo in una stamberga che sa di ddt e antitarme, ma sono questi i viaggi che cerco. In tasca ti rimane la consapevolezza di far parte di un grande “fluire”, tutti a pedalare sulla stessa ruota, osservatore ed osservato, a danzare la danza cosmica di Shiva, Panta rei, facciamo il pieno di benza 80 ottani, la mejo che se trova qui, il resto è ritorno.
LG
Peccato per le poche foto, comunque complimenti per il viaggio!