Viaggi: Islanda. Dal 43° parallelo fino al 65° ed oltre...
È la mattina presto di sabato 23 luglio. Giro la chiave. Tutte le spie del cruscotto si accendono e, dopo pochi secondi, spengono. Premo il bottone grigio dell’avviamento e do un colpo di gas più forte del solito, la moto mi risponde: sono pronta, andiamo!
Il serbatoio è pieno fino all’orlo, i bagagli sono sistemati, legati e controllati fin dal venerdì, prima di partire ho persino lavato la moto, che è una cosa che non faccio tanto di frequente. Entro in autostrada, eccitazione e timori si compensano. Il cuore batte al ritmo del bicilindrico.
Prima tappa: Ulma, Germania, un centinaio di chilometri dopo il confine austriaco. Ho cominciato a programmare questo viaggio ancor prima di Natale ed ora sono in marcia. Ho un appuntamento alle 07.00 di martedì con la Norrona, il traghetto che, partendo da Hirtshals, estremo nord della Danimarca, mi condurrà in Islanda. Ho appuntamento, ma questo lo saprò solo in seguito, con trenta/quaranta persone meravigliose, motociclisti, donne e uomini, provenienti da tutta l’Europa continentale, intenzionati, come me, a scoprire quest’isola posta nel Mare del Nord tra la Norvegia, e la Groenlandia. Impazienti di vivere, come me, questa splendida, emozionante, incredibile avventura.
Ho letto molto durante la fase di organizzazione, moltissimo. Ho cercato e raccolto informazioni su ogni aspetto dell’isola, condizioni meteo, temperature, venti, maree, situazione e classificazione delle strade. So quasi tutto sulle ultime eruzioni, inondazioni, glaciazioni. Ho guardato e riguardato video. Ho letto decine e decine di report di viaggiatori. Ho visionato per mesi, quasi ogni giorno, le webcam, puntate sulle strade d’Islanda, che danno in tempo reale: meteo, velocità del vento e temperatura.
Ma tutto questo a ben poco è servito. Nulla, assolutamente nulla, non una parola, non un’immagine, potrà mai descrivere le sensazioni, le emozioni, il phatos, la commozione, che ti assale nel percorrere il territorio di questa terra incredibile. “Reality says more than 1000 pictures” è lo slogan che compare sugli opuscoli dedicati a questa giovane isola di origine vulcanica. E’ la pura e semplice verità. Lo ricordi sempre chi leggerà queste pagine, chi guarderà le immagini e le riprese video. Sono davvero poca cosa, confrontate alla realtà.
Sono in viaggio. Già sulla A22, pochi chilometri prima di Mantova comincia a piovere. Temporali e pioggia insistente mi accompagneranno per tutte le tappe di trasferimento, fino alla sera prima dell’imbarco. Alle 6 del pomeriggio sono ad Ulma, mi sembra di aver volato. Trovo con facilità l’Etap Hotel che avevo prenotato. Cena, un sms a casa e vado a dormire, il mattino seguente ancor prima delle 7 sono di nuovo in marcia sulle autostrade della Germania. Ancora pioggia e vento che si alternano a qualche schiarita. Traffico di turisti domenicali, qualche lavoro in corso e un incidente spezzano di tanto in tanto il ritmo, ma nei tratti esenti da limiti di velocità spingo un po’ di più sull’acceleratore, 150/160 km/h. Come niente fosse auto di grossa cilindrata ed anche una BMW della polizia mi sorpassano alla velocità della luce facendomi sballotare per lo spostamento d’aria. Impressionante.
Arrivo a Flensburg, appena prima del confine con la Danimarca, solito Etap prenotato in precedenza, ma questa sera non sono solo. Marco, (GS 800) un ragazzo romano ma che vive e lavora all’estero, arriva un’oretta dopo di me, verso le nove di sera arrivano Pietro (GS 800) ed un suo amico. Marco e Pietro, mai visti prima, li avevo conosciuti sul web, gironzolando per forum in cerca di info sul viaggio e ci eravamo dati appuntamento proprio all’Etap di Flensburg. L’amico che accompagna Pietro si chiama Emanuele, viaggia con una Transalp e... sorpresa delle sorprese: abita e vive ad un chilometro da casa mia. Incredibile.
Partiamo tutti e quattro lunedì mattina con calma, ci restano da percorrere poco meno di 400km, uno scherzo in confronto ai 1800 fatti nelle tappe dei due giorni precedenti. Marco ed io decidiamo di accompagnare Pietro ed Emanuele fino a Aalborg, dove i due hanno prenotato un appuntamento col concessionario BMW locale per montare le gomme tassellate che si sono portati da casa, legate sopra a tutti i bagagli. Arriviamo verso le 11, ma il lavoro non si può fare subito e viene posticipato al pomeriggio. Mangiamo un panino assieme, salutiamo Pietro ed Emanuele poi, Marco ed io, riprendiamo la marcia, separandoci a nostra volta, lui pernotterà ad Hirtshals, io sono ad Albaek. L’appuntamento è per la mattina seguente al molo dell’imbarco.
Sono a più di 2000 km da casa, sulla punta più estrema della Danimarca, la luce della sera è già quella chiara e diffusa dei paesi scandinavi, il mare del nord è scuro e pare infinito. L’emozione fa battere il cuore a mille. Il minuscolo paese è affollato di gente, ma si capisce che son tutti lì per l’imbarco, l’indomani le piccole strade torneranno deserte, restituite ai pochi pescatori locali.
Ci siamo. Il viaggio immaginato per mesi e mesi, il viaggio sognato, il viaggio temuto, il viaggio, quello vero, sta per cominciare.
MARTEDI’ 26 LUGLIO
Ci sono moto di tutti i tipi in fila all’imbarco, dal custom Harley con il proprietario in perfetta divisa d’ordinanza: giubbotto con frange di pelle, casco tipo elmetto tedesco, barba incolta e sacchetto di tabacco al collo, fino a moto da cross, talmente acchittate che sembrano appena uscite dal box di preparazione di una prova del campionato del mondo di enduro. Diverse GS 650/800/1150/1200, poi V-Storm, Transalp, qualche coraggiosa stradale, Africa Twin, Honda Dominator, Tenerè di annate diverse e KTM di tutte le cilindrate. Spiccavano tra tutti, due tedeschi, con tute spaziali nero/arancio, stivali da cross, casco in tinta e ovviamente moto identiche: due K690, serbatoio africano, tassellate con degli artigli che sembrano degli uncini e uno sguardo teutonico che incuteva timore; incrocerò presto di nuovo quegli occhi.
L’uomo con la cerata arancione che era vicino la transenna ci fa un segno alzando il braccio. Le moto salgono per prime, in fila indiana ci infiliamo nella pancia della Norrona.
Oltre alle moto, in attesa, assieme a camper e vetture normali, ci sono moltissime auto fuoristrada, di quelle che si vedono normalmente in giro per le nostre strade, ma soprattutto si notano mezzi da “sbarco sulla luna”, veri e propri camion di grandi dimensioni, tutti 4x4, attrezzati e preparati per superare qualsiasi ostacolo. Ogni avversità. Fanno davvero impressione.
Quando è il mio turno di parcheggiare la moto, riparto senza accorgermi di avere la ruota posteriore su di un occhiello fisso al ponte che serve per ancorare i mezzi. Mi impunto, il motore si spegne e casco in terra come un salame. Che figura meschina. Cerco di rialzare la moto carica che sembra pesare una tonnellata, non ce la farò mai, penso, mentre tiro o spingo o tutte e due le cose assieme, senza risultato, fino a che non arriva un omaccione dello staff della nave, solleva la moto come fosse un cinquantino, ma lo fa con tale irruenza e con me ancora aggrappato, che mi ribalto di nuovo, rovesciato dall’altra parte, steso sulla moto. Doppia figura meschina. Mi guardo attorno smarrito e incrocio lo sguardo compassionevole e irriverente della coppia teutonica con i KTM spaziali.
Sono caduto tre volte in tutto questo viaggio, in quasi 7000 km di cui circa 1500 su strade sterrate e piste, vietate al normale transito veicolare ma consentito alle moto e ai mezzi 4x4, alcune estremamente impegnative, che a ripensarci mi chiedo io stesso come abbia potuto farcela.. Queste, all’interno del traghetto, sul ponte 4, sono state le prime due.
Con facilità individuo e mi dirigo in cabina, per posare il bagaglio, senza accorgermi che la nave sta già quasi salpando, mi/ci attendono 2 giorni interi di navigazione.
La moto, ancorata agli occhielli maledetti, riposa.
IN NAVIGAZIONE
Ho prenotato una cabina da quattro letti, preferendola, con un sovrapprezzo di meno di 100 euro per tratta, alle cuccette da 6 o 9 letti. Mai denaro fu speso meglio. Marco è in cuccetta da 9, al ponte 2, quello più in basso di tutti, addirittura sotto i ponti di carico che sono il 3 e il 4. Un girone dell’inferno dantesco. Subito sopra i motori della nave, non ci arrivano nemmeno gli ascensori, per scendere le ultime rampe di scale ci vuole il patentino da speleologo. Pietro ed Emanuele, invece fanno i gran signori: cabina da due con finestra, tutta per loro. Hanno potuto sfruttare l’offerta “bikers” della Smyrill Line, la compagnia che fa servizio per l’Islanda, che con meno di 800 euro prevede andata e ritorno per due persone e due moto in cabina riservata.
Assieme a me, in cabina, ci sono due austriaci, davvero poco loquaci che per lo più hanno dormito durante tutta la traversata, e Patric, un ragazzo di origini italiane, ma che vive a Parigi da sempre. Patric mi ha raccontato la sua Islanda e il suo innamoramento folle per questa terra. A sentirlo parlare era come se stesse raccontando delle fiabe. E’ al suo quarto viaggio in Islanda e questa volta si sarebbe fermato un mese. Viaggia con un BMW 650, non vestito da moto, ma da trekking, tenda, sacco a pelo e scatolette di cibo nello zaino, il resto nelle borse laterali. Indossa scarponcini da montagna. Con la motocicletta arriva fin dove riesce, poi prosegue a piedi. Le sue carte non sono come le mie, stradali, lui gira con carte topografiche dettagliatissime e bussola al collo. L’Islanda lui non la visita, la esplora. Mi ha affascinato. Lui mi ha raccomandato, quando gli ho detto che avevo in programma di fare sia la pista 35 che la 208, di partire presto la mattina, in particolare per la seconda, il rischio sarebbe stato, partendo tardi, di restare bloccato, come capitò a lui in uno dei suoi viaggi precedenti.
Immaginavo due giorni di noia totale, e invece il mare del nord è splendido a tutte le ore, i colori cambiano di continuo, e poi, per quasi tutta la prima giornata di navigazione, il traghetto viaggia a ridosso della costa norvegese e il panorama è comunque vario e piacevole.
La maggior parte dei motociclisti, come anche io ho fatto, una volta a bordo e sistemata, si è cambiata d’abito mimetizzandosi quindi in mezzo agli altri passeggeri, inizialmente tengono duro la coppia spaziale che indossa ancora gli stivali da cross neri e arancione fosforescente, anche se poi si cambieranno pure loro! e altri due che non avevo notato all’imbarco, ma che per tutto il tempo non hanno fatto altro che sfogliare riviste di moto. Se ne devono essere portati una scorta da casa.
Ah, la coppia coi K, tolti gli stivali, si presenta in sandali francescani e calzini bianchi, il bianco Dash per intenderci, quello che tutte le casalinghe sognano. Sarà peggio ribaltare la moto sul ponte 4, mi chiedo, o andare in giro così conciati?
Faccio conoscenza con due ragazzi di Torino, K990 Adv e V-Storm, una coppia con un GS1150 giallo e un’altra coppia di lombardi in viaggio di nozze su di una GS 1200 Adventure. La ragazza è stata spesso con noi a chiacchierare o con l’altra coppia, il neo marito invece, non si è mai visto, ha trascorso due giorni in cabina con lo stomaco sottosopra per il mal di mare.
Il pilota del custom, sigaretta arrotolata sempre tra le dita, faceva il gallo con le cameriere del ponte 8, ma credo senza grandi risultati. L’ho incontrato di nuovo due o tre giorni dopo, dalle parti di Varmahlid, fermo al bar di un distributore che parlottava con la cassiera e ricordo di essermi chiesto come mai si trovasse da queste parti uno con quello spirito. Non sarebbe stato meglio andarsene a Riccione o in una qualsiasi altra località della riviera romagnola? Con la sua Harley e il portamento da “very strong man” avrebbe sicuramente avuto più fortuna.
Sul ponte 8, quello con la veranda all’aperto che ospita lo sky bar, una combriccola di non meglio identificati camionisti nord europei, ha trascorso tutto il tempo della traversata a bere enormi boccali di birra dentro cui versavano, (mischiandoli alla birra), dosi di liquori imprecisati, acquistati al duty free shop della nave e cantando a squarciagola. Si allontanavano barcollando di tanto in tanto, immaginavamo per andare a liberarsi lo stomaco, perché dopo un poco li vedevamo ricomparire per ricominciare a bere, a cantare ed a discutere animatamente, in una lingua incomprensibile.
Sarà stata l’emozione o l’impazienza, sarà stato che tutto era così coinvolgente: il forte vento sul mare aperto, l’orizzonte senza fine, il sole che sbucava inatteso dopo un temporale improvviso e violentissimo, che i due giorni sono filati via in un attimo, e all’alba di giovedì 28, la costa dell’Islanda, ci è apparsa davanti all’improvviso.
SBARCO SULLA TERRA DI FUOCO E GHIACCIO
Parte prima
Mi tremavano le mani, lo confesso. Inserire la chiave dell’accensione nel blocchetto della moto è stata un impresa. Tutto mi è sembrato faticosissimo, slegare la moto, indossare il casco, infilare i guanti, scendere dal cavalletto.
L’attesa dell’invito ad accendere i motori mi è parsa infinita. Illuminato dalle luci dei neon del ponte 4 aspettavo un segno. Aspettavo lo sparo dello starter come un centometrista sui blocchi di partenza, ansioso di lanciarsi in avanti, con la tensione nei muscoli, che, apparentemente fermi, ma tirati allo spasimo, accumulavano acido lattico. E’ lo stesso gigante buono che mi ha aiutato a rialzare la moto alla partenza a darci il via. Senza una parola, senza gesti, ci sorride e fa un impercettibile cenno col capo. Capiamo tutti che è il momento. Solo questo stavamo aspettando. Giro di chiave. Rombo di motore. La rampa in discesa della Norrona, umida e oleosa, sembra più lunga di tutta la strada che ho fatto per arrivare fin qui, ma sono fuori. L’aria è fresca, c’è il sole. Respiro una nuova vita che comincia in questo preciso istante.
Come guidati da un unico istinto, ci fermiamo tutti al primo incrocio, subito fuori dall’area doganale. Sui nostri parabrezza splende l’adesivo violetto del permesso d’importazione temporanea della moto, che una biondissima, sbrigativa, agente di frontiera, ci ha appiccicato dopo poche domande rituali.
Oramai siamo tutti amici, ci scambiamo mail e numero di cellulare. Con Patric fisso un nuovo appuntamento per due giorni dopo, ad Akureyri. Anziché fare subito un poco di strada assieme, come concordato inizialmente durante la navigazione, vista la bella giornata, decide di avviarsi immediatamente nell’interno, verso un vulcano minore, dal nome impronunciabile e che sulla mia carta non è nemmeno segnato, mentre sulle sue, sembra enorme. Ad Akureyri non è venuto e non l’ho ancora sentito, ma ha la mia mail, mi ha promesso le foto dei posti che attraverserà. Sono sicuro che tra un mese, non appena sarà rientrato a Parigi, avrò sue notizie.
Ci salutiamo allegramente, indugiando tutti ancora un poco, come se nessuno avesse il coraggio di partire per primo. Salutiamo i due di Torino. Salutiamo la coppia fresca di matrimonio, lei pimpante e radiosa come fosse appena scesa dall’altare, lui con il viso dello stesso colore giallo del Gs 1150 dell’altra coppia. Salutiamo anche loro. Non vedo i K spaziali, ma non mi importa. Marco, Pietro, Emanuele ed io ci immettiamo sulla n°1, l’unica strada completamente asfaltata di tutta l’Islanda, ma per poco. Leggendo e studiando le carte e gli itinerari nelle ore di attesa sul traghetto, avevamo individuato un percorso che ne tagliava via un gran pezzo, una specie di scorciatoia, così già dopo pochi chilometri ci buttiamo sulla 901 e, come Alice attraverso lo specchio, entriamo in un'altra dimensione.
Il mare blu e verde, che ci ha cullato per due giorni, scompare, come se non fosse mai esistito. Ne appare un altro, coi toni di marrone e ocra, Il paesaggio è davvero sconfinato. Monti innevati all’orizzonte. La strada, attraverso una piana immensa, svanisce nel nulla, laggiù in fondo, sul bordo superiore di colline scure, che segnano il confine tra il cielo e la terra.
Nuvole bianche brillanti, bordate di grigio, si distendono di fronte a noi, poco sopra il bordo superiore del parabrezza, sospese a mezza altezza, non alte nel cielo, vicine, e, al tempo stesso, lontane, sentinelle di luoghi che scopriremo pian piano, ma che ora non possiamo, non riusciamo, neppure ad immaginare.
Sono preso da una eccitazione e da una euforia incontenibili, e con me i miei tre compagni di viaggio. Corriamo su questa pista di terra battuta e sassolini giallastri, a velocità folle, sollevando una scia di polvere che il vento leggero allunga lateralmente e disperde nella pianura. Emanuele, incontenibile, rallenta e accelera in continuazione, facendo scodare la ruota posteriore come una bandiera garrisce al vento.
Pietro e Marco, più incerti, entrambi per la prima volta con gomme tassellate, montate apposta per l’Islanda e con cui non hanno ancora sufficiente confidenza, seguono. Io chiudo la carovana, incantato dal paesaggio, accompagnato, in sottofondo, dalla musica del boxer. Corriamo, ebbri di gioia, scaricando sulla manopola del gas il desiderio di moto, compresso e trattenuto nei giorni di nave. Corriamo lungo la 901, di cui non si vede fine, nulla tutto intorno. Non una casa, non un albero, nessun segno di civiltà. Voliamo tra pietre e polvere, salendo e scendendo colline, attraversando altre pianure, per una quarantina di km, fino ad immetterci di nuovo sulla n°1.
LA NUMERO 1
La n°1 è la strada asfaltata che segue per gran parte del periplo dell’isola. E’ lunga circa 1600 km. Dovrebbe essere tutta pavimentata, ma per la verità ho incontrato diversi tratti interrotti. Il motivo è semplice. E’ sufficiente che uno qualsiasi dei ventidue vulcani attivi e perennemente ricoperti di neve e ghiaccio, o qualcuna delle centinaia di bocche minori, presenti sull’isola, dia un “colpo di tosse” per vaporizzare all’istante centinaia o migliaia di metri cubi di ghiaccio e neve, provocando una inondazione che spazza via, in pochi minuti, tutto quello che trova sul suo percorso.
Esattamente tre settimane prima della mia partenza, uno scherzetto del genere da parte del vulcano Hekla ha trascinato via, in pochi istanti, un lungo ponte e 800 metri di strada nei pressi di Vik, bloccando per 10 giorni, il tempo necessario al ripristino di un passaggio di emergenza, il transito alle auto normali. Percorrendo la n°1, la settimana scorsa, Marco ed io, in quel punto, siamo transitati su un ponte, ancora provvisorio, di ghiaia e assi di legno. Ma per gli abitanti del luogo è quasi normale, sono abituati a convivere con i capricci dei loro “amici” vulcani.
Questa strada principale, che per la maggior parte del suo percorso, segue la costa, è obbligata a snodarsi lungo tutto il contorno dei fiordi che sono spesso stretti e lunghissimi. Due cittadine situate sulla riva opposta dello stesso fiordo, che sono separate in linea d’aria magari da poche centinaia di metri, su asfalto distano in realtà anche 50/100 km. Sono d’aiuto, in questi casi, le piste interne, che nel caso dei fiordi, si arrampicano sul ripido versante di una parete per ridiscendere dall’altro, nel caso dell’isola, la attraversano da nord a sud o da est ad ovest, ovviamente, con innumerevoli varianti.
Volendo spostarsi da uno qualsiasi dei piccoli centri del versante nord dell’isola, ad uno di quelli della costa a sud, diametralmente opposti, lungo la n°1 si percorrono 8/900 km; in alternativa è possibile tagliare l’isola in diagonale lungo una delle diverse piste interne. La differenza sostanziale, oltre al notevole risparmio di chilometri, consiste nel fatto che le piste, denominate con la lettera F, davanti al numero che le contraddistingue, sono percorribili esclusivamente da mezzi a 4 ruote motrici, sono spesso prive di ponti e di conseguenza il grande numero di fiumi, torrenti e corsi d’acqua generati dall’abbondante disgelo estivo, devono essere attraversati a guado; inoltre sono del tutto sprovviste di punti di rifornimento di carburante.
Stiamo per inoltrarci lungo una pista consentita esclusivamente alle auto a trazione integrale, con un numero non meglio precisato di guadi da superare ed il rifornimento successivo lo trovate soltanto dopo aver percorso 268 km, generalmente di lava, distese di pietra pomice, traversato fiumi di acqua gelida, deserti di sabbia lavica, dune di fuliggine ammassate dal vento.
La n°1 è anche la catena di distributori di benzina più diffusa in Islanda, anche se il termine diffusa, già dopo il primo giorno, mi è sembrato decisamente esagerato. Anche su asfalto, i rifornimenti possono distare tra loro anche qualche centinaio di km. Ad ogni pieno o rabbocco del serbatoio, era buona consuetudine calcolare la percorrenza residua e memorizzare il “punto di non ritorno”. Punto in cui, anziché proseguire, senza la certezza di distributori nel raggio dei km previsti, era meglio tornare sui proprio passi, rifornirsi e cercare percorsi alternativi. Marco portava sempre con sé, piena fino all’orlo, una tanica da 5 litri legata sul portapacchi, e come lui moltissimi altri motociclisti. A me è capitato solo una volta di arrivare al punto di rifornimento, che la mia carta stradale indicava chiaramente, con il trip computer che segnava una autonomia residua di soli sette chilometri.
Infine, ho avuto l’impressione che la n°1 fosse anche la strada dei turisti delusi, quelli che, in un pacchetto tutto compreso, ricevono, appena usciti dall’aeroporto, le chiavi di una Yaris rossa o grigio metallizzato a noleggio, li riconoscevamo subito. Trascorrono la loro vacanza vagando su questo nastro d’asfalto, spesso senza nemmeno rendersi conto di trovarsi a pochi metri dalla porta di accesso di un mondo meraviglioso e stupefacente, senza trovare l’istinto o il coraggio di varcarne la soglia ed entrare nell’incanto che questa terra nasconde.
SBARCO SULLA TERRA DI FUOCO E GHIACCIO
Parte seconda
Siamo fermi, nuovamente sulla strada principale, togliamo i caschi, senza parole. Incapaci di descriverci a vicenda le emozioni. I primi chilometri sulla terra d’Islanda ci hanno dato una scarica di adrenalina incontenibile, ridiamo, e scherziamo, dicendo frasi apparentemente prive di senso, nella speranza inutile di esprimere l’euforia che trabocca dal petto, brilla negli occhi. Pochi istanti e si riparte, la fretta di scoprire i tesori di questa terra incredibile, ci aggredisce.
Per tutti e due i giorni di navigazione ci siamo confrontati, carte alla mano, sui nostri rispettivi itinerari. Ognuno di noi, durante i mesi invernali, in fase di preparazione del viaggio, aveva stilato il proprio. Nel mio, per il primo giorno, avevo previsto di dirigermi subito verso i fiordi del nord. Sulla carta mi ero già segnato il campeggio nei pressi di Husavik, dove avrei trascorso la prima notte. L’itinerario di Pietro ed Emanuele, puntava a sud, verso l’interno, in direzione delle grotte di ghiaccio di Kverkfjoll, raggiungibili attraverso il deserto di sabbia della F88, per poi tornare indietro, imboccare la F910 e salire all’Askia. Marco era intenzionato a dirigersi immediatamente all’Askia, seguendo un primo tratto di F88 e deviando subito per la F910. Per Marco è stato facile, dovendo percorrere la prima parte di 88 assieme agli altri due, decidere di posticipare di un giorno la salita all’Askia e unirsi, quindi, al programma di Pietro ed Emanuele. Io invece ho mantenuto immutate le scelte previste, volevo fare la 864 e poi la 85 che prima attraversa e poi costeggia tutto il promontorio di Tjiornes, e così ho fatto.
Ci salutiamo con grandi pacche sulle spalle. Fisso un appuntamento con Marco di lì a due giorni ad Akureyri, dove entrambi, secondo i rispettivi programmi, abbiamo fissato il pernottamento, tappa quasi obbligata, unico posto urbanizzato e ovviamente unico distributore di benzina, prima dell’imbocco della pista 35 che entrambi abbiamo sul nostro ruolino di marcia. Pista che, da nord a sud, attraversa il deserto del Kjolur, passando in mezzo a due vulcani, il Langjokull, e l’Hofsjokull, per ricongiungersi, dopo 160 km, con la n°1, nei pressi di Gullfoss.
Non sono ancora le dieci di mattina, siamo sbarcati da poco più di due ore, abbiamo percorso una parte infinitesimale dei chilometri che ci troveremo ad aver percorso alla fine della nostra permanenza sull’isola, eppure ci sentiamo già completamente immersi nell’avventura, quella vera, che questa terra, unica nel suo genere, ci offre. Il fascino incantevole di quest’isola ci ha stregati, come il canto delle sirene a cui non si può resistere. Siamo immersi in un territorio con colori, luci, orizzonti, cieli, mai visti prima. Tutto è nuovo, diverso. Tutto è da scoprire... e così sarà.
Aspetto Marco, Pietro ed Emanuele mentre si riforniscono di viveri, riempiono serbatoi e taniche, li saluto di nuovo con un abbraccio; da parte loro un ultimo vano tentativo di convincermi a seguirli, metto in moto e parto. Mentre vado li vedo nello specchietto che indugiano ancora un poco sulle mappe, poi spariscono, sparisce lo spaccio, il distributore. Pochi minuti di asfalto e imbocco la 864. Riduco la velocità, quasi mi fermo, sono completamente solo, su di una terra che mi sembra senza fine, il silenzio è così intenso che sovrasta il rumore del motore.
Non si ode davvero nulla, solo un sibilo leggero di vento. Laggiù davanti a me, invisibile, oltre la terra scura, oltre decine di cascate, oltre i monti imbiancati, c’è la destinazione del mio primo giorno in Islanda. Scalo una marcia, giro dolcemente la manopola dell’acceleratore e volo via.
LA PISTA 35
Siamo entrambi in anticipo. Dieci, quindici minuti buoni prima dell’ora stabilita. Marco ed io ci ritroviamo al distributore individuato sulle carte e concordato per l’appuntamento, due giorni prima. In Islanda non c’è l’ora legale, a che servirebbe del resto..in questo periodo, di fine luglio, inizio agosto, ci sono 20/21 ore di luce. L’ora è quella del meridiano di Greenwich, due ore in meno rispetto l’Italia. Con Marco abbiamo trascorso insieme e in moto molte ore. Nei giorni seguenti ci scherzavamo su, dicendo che andavamo a dormire col fuso islandese a ci alzavamo col fuso europeo. Sono le 07e30 “local time” che, riempiti i serbatoi “a tappo”, ci mettiamo in marcia.
La pista 35 non si è dimostrata è particolarmente impegnativa; lunga, questo sì, poiché taglia l’isola quasi per traverso, ma agevole. Inizia a nord, nei pressi di Varmhalid per arrivare a sud ad una quarantina di km da Reykjavik. La caratteristica che la contraddistingue però è che nel suo snodarsi tra le distese di lava e pomice del deserto del Kjolur, attraversa un altipiano che si distende proprio in mezzo a due vulcani ricoperti di ghiaccio. Piovaschi improvvisi e schiarite si alternano per tutta la mattinata lungo il percorso, trasformando di volta in volta la polvere in fanghiglia viscida e viceversa fin quando ci ritroviamo, come per magia, ai piedi dei due vulcani. Da una parte, imponente, il Langjokull, illuminato dal sole, dall’altra l’Hofsjokull, di cui non si intravede la cima, immersa come è nelle nuvole, ma alla base, sui suoi enormi piedi di ghiaccio, nevica. Per alcuni minuti, nevica talmente intenso che si distinguono con facilità i grossi fiocchi, scendere copiosi, lì davanti a noi a poche centinaia di metri, talmente vicini che sembra di stare ad una finestra a guardar fuori come nevica in una giornata d’inverno, mentre dalla parte opposta, il sole, che fa risplendere il ghiaccio bianco e celeste del vulcano gemello, crea un effetto di luce da caleidoscopio. Siamo ammutoliti. E’ impossibile descrivere lo spettacolo, i colori, dipinti da una tonalità di luce che esiste soltanto a queste latitudini, sono unici, la maestosità dei due vulcani, e la strada scura, senza fine, che si dirige verso l’orizzonte lontano, sono da farti rimanere senza fiato.
Proseguiamo, per molte ore ancora, mentre il paesaggio, degradando verso la pianura, si fa sempre più verde, lambendo distese di acqua cristallina. Ogni avvallamento, ogni depressione del terreno, ogni conca, viene riempita dall’abbondante acqua che fluisce dallo scioglimento estivo dei due ghiacciai, dando vita a distese immense di laghi che si intersecano l’uno con l’altro, seguendo la bizzarra altimetria del territorio. Ancora pochi chilometri ed arriviamo in quello che sugli opuscoli turistici viene chiamato comunemente il circolo d’oro. Gullfoss, Geysir e Thingvellir.
Gullfoss è probabilmente la cascata più famosa d’Islanda. Una massa imponente e fragorosa di acqua dal colore caratteristico della terra che scava e trasporta lungo il suo scorrere. Geysir è una vasta area ad alta concentrazione di caldere attive, specie di enormi pentoloni, a livello del terreno, in cui l’acqua ribolle. In quelle più estese, l’acqua in superficie si raffredda a contatto con l’aria fresca facendo come da tappo a quella che, in profondità, continua a scaldarsi per la vicinanza di camere magmatiche, fino a raggiungere il punto di ebollizione che provoca, ad intervalli regolari, l’esplosione e la fuoriuscita di una colonna di acqua e vapore, alta dai trenta ai quaranta metri. Questo fenomeno della natura, presente in altre parti della terra, conosciuto col nome di geyser prende il nome proprio da questa località. Thingvellir, oltre ad essere il sito storico più caro agli islandesi, essendo stato il luogo dove i vichinghi, primi colonizzatori del territorio, istituirono il più vecchio parlamento democratico del mondo; è anche il luogo dove è possibile vedere dal vero, con i propri occhi, messe in pratica, le prime nozioni di geografia continentale, studiate sui banchi di scuola. A Thingvellir una enorme spaccatura nel terreno, lunga una decina di chilometri segna il confine tra il continente nord americano e quello europeo. Qui la deriva dei continenti è in atto e i due “bordi” della spaccatura si allontanano progressivamente di uno/due centimetri all’anno. Sotto scrosci di pioggia battente, provocati da nuvole nere che rendono il giorno ben più buio della notte islandese, ci dirigiamo verso Reykjavik che invece ci accoglie col sereno. Ceniamo assieme, dopo aver scaricato i bagagli, Marco in un ostello, io in un alberghetto appena fuori città.
Dopo cena, seduti su di una panchina nel centro di una Reykjavik, che si appresta a vivere la lunga notte festiva, illuminata da un sole che non ne vuole sapere di tramontare, Marco mi racconta nei particolari di come lui, Pietro ed Emanuele, nei giorni precedenti, siano stati respinti dalla F88, senza riuscire a raggiungere le grotte di ghiaccio, sopraffatti da una tempesta di sabbia finissima in cui le moto si rifiutavano di avanzare, da bufere improvvise di vento che sollevavano nuvole impenetrabili di fuliggine rendendo invisibile la pista. Di come, nonostante il casco, avessero pieni gli occhi, le orecchie, la bocca, di una polvere impalpabile e irritante, delle innumerevoli cadute e degli sforzi sovrumani per risollevare le moto stracariche che sembravano pesare ogni volta un po’ di più, fino a decidere di dirigersi subito verso l’Askia, rinunciando alla grotte di ghiaccio.
Guardiamo le due BMW parcheggiate accanto a noi, sembrano due sorelle, una un po’ più grande, l’altra un poco più piccola. La pioggia degli ultimi chilometri ha lavato gran parte della fanghiglia raccolta sugli stivali e sulle moto attraversando il deserto del Kiolur, sono le 11 e mezza di sera, ora locale, l’una e trenta di notte in Italia. La luce nel cielo è la stessa che a inizio giornata, ci aveva visti partire, potrebbe essere che tutto stia lì, lì, per cominciare ed invece siamo sul finire di una giornata in cui abbiamo fatto 14/15 ore di guida, attraversato l’isola da nord a sud, solcato paesaggi e orizzonti che non dimenticheremo mai.
LA PENISOLA DI SNAEFELLS
La strada sulla mia carta è di colore rosso, quindi dovrebbe essere asfaltata, ci accorgeremo coi fatti, che l’asfalto è presente sì e no per un paio di chilometri nell’attraversamento delle minuscole località, spesso composte di appena tre, quattro case e, quando va bene, da una pompa di benzina. Per il resto terra battuta, molto ben tenuta, su cui è possibile condurre le moto mantenendo una media elevata, anche 100/110 km/h. In verità, al di fuori dei centri abitati, sulle strade di terra, il limite imposto dalle norme che regolano la circolazione, è di 80 km/h, mentre su quelle in asfalto di 90 km/h. Questa differenza minima, di per sé, già la dice lunga sul modo di guidare della popolazione locale. Così, mentre su asfalto i limiti vengono da tutti rigorosamente rispettati, sulle “gravel road”, vige la legge del più forte, o per meglio dire, di chi va più forte. Ho imparato presto a mie spese che, allo scorgere negli specchietti dell’avvicinarsi di uno di quei mostri a trazione integrale con gli pneumatici delle dimensioni di una panda, gonfiati a bassa pressione, è meglio, se si tiene alla propria pelle, rallentare, accostare sul ciglio della strada e lasciarli passare. Viaggiano a velocità forsennate, sparando sassi e graniglia come fossero delle mitragliatrici. Più che automobili, sembrano degli hovercraft, che galleggiano sul manto stradale di polvere e ghiaia, ti sorpassano con un sibilo e scompaiono in una nuvola di polvere.
La fortuna è che sono pochissimi, il traffico praticamente non esiste, si può viaggiare per ore intere senza incrociare nemmeno un veicolo. Anche sui ponti, presenti su queste strade, che sono per la stragrande maggioranza, ad un’unica corsia, vince chi va più forte: il primo che arriva ad impegnare l’unico, stretto, corridoio delimitato da paletti di legno, ha diritto di precedenza, lo dice la legge. Stranamente, ho notato davvero poca cura allo stato dei ponti, che del resto vengono spazzati via con frequenza. Devo dire che sono stati proprio i ponti delle gravel road, i tratti di strada che mi hanno sempre messo più apprensione, quando ne incontravi uno, bagnato di pioggia, con le assi di legno umide o su quelli in vicinanza della costa, con la superficie resa scivolosa dalla salsedine, arrivare dall’altra parte dava un bel senso di sollievo.
La guida, che ho consultato spesso per arricchire l’itinerario di punti di interesse, descrive la penisola di Snaefells come un luogo isolato, inospitale e sferzato dal vento. Noi abbiamo avuto la fortuna di essere accolti da una giornata soleggiata, con una temperatura piacevole e l’assenza assoluta di vento. La punta che più si protende verso il mare aperto, è sovrastata dallo Snaefellsjokull, piccolo, si fa per dire, vulcano ricoperto di neve perenne, sulle cui pendici ci sono i crepacci attraverso i quali, i protagonisti del romanzo di Giulio Verne, “Viaggio al centro della Terra”, intraprendono l’inizio della loro fantastica avventura. Il luogo, orlato da alte scogliere a picco sul mare, è popolato di una quantità innumerevole di specie di uccelli, apparentemente tutti uguali, ma, nella realtà, con la livrea di tantissime sfumature e contrasti diversi a differenziarne le sottospecie di appartenenza; infine, è territorio di dominio incontrastato delle sterne artiche, che in questo periodo dell’anno, su prati pianeggianti di queste coste che finiscono a strapiombo sul mare, viene a deporre e covare le uova. La sterna artica, riporto dalla guida: “migra ogni anno, dall’artide all’antartide e si calcola che, ogni individuo, nel corso della vita media, percorra all’incirca due milioni e mezzo di chilometri. nel periodo della cova si raduna in colonie, deponendo le uova sui prati antistanti il mare, scacciando con veemenza e coraggio qualsiasi intruso”.
Ormai non ci stupisce più arrivare ad Olafsvik ed accorgerci che chiamarlo paese è una esagerazione bella e buona, ma il distributore almeno c’è, solito rabbocco e via. Raggi di sole filtrano tra le nuvole quando imbocchiamo la pista che porta verso la cima dello Snaefellsjokull. Procediamo su di uno sterrato che diventa sempre più impegnativo, le pietre che spuntano dalla superficie della mulattiera sono sempre più grosse e la strada sempre più ripida, io che viaggio con gomme stradali accuso il colpo e procedo a grande fatica, fino a che proprio non riesco più ad avanzare. La ruota posteriore gira, grattando i sassi, ma l’anteriore non si sposta che di pochi centimetri. Mi fermo. Marco, gommato meglio di me, riesce a salire ancora e scompare nelle nuvole che si stanno abbassando rapide su di noi. Tornerà dopo poco per comunicarmi che non si va oltre, ad un paio di chilometri la strada è invasa dalla neve. Ci giriamo. Abbiamo da poco iniziata la discesa che incrociamo un uomo, il quale, scarponi da montagna e zaino, sta salendo a piedi. Questo è un altro dei giochi di prestigio che questa terra è capace di fare: percorri decine, se non centinaia, di chilometri senza incontrare anima viva e poi all’improvviso ti appare, come sbucato dal nulla, qualcuno che vaga, attraversa, esplora, la magia di quest’isola, spesso nella più completa solitudine. Mi torna in mente Patric, il parigino compagno di cabina. Chissà dove avrà abbandonato la moto ora. Chissà su quale vulcano ghiacciato si starà arrampicando in questo momento.
Torniamo sulla costa e ci dirigiamo verso le scogliere. Sulla carta è segnato un faro, individuiamo ed imbocchiamo la pista che, attraverso creste di lava che paiono appena sputate fuori dal vulcano che le sovrasta e spianate di erba verdissima a strapiombo sul mare, si snoda sul confine estremo della penisola.
Su di una piana, in mezzo all’erba, centinaia di sterne artiche, pare si stiano godendo il tepore del sole. Mi fermo ed avvicino per scattare qualche foto, ma basta un passo in più perché queste si alzino improvvisamente tutte quante in volo. Il cielo si riempie di uccelli bianchissimi, con la piccola testa nera ed il becco e le zampe rosso vivo. Uno spettacolo. Torno alla moto per prendere la videocamera, mentre le sterne tornano a terra tutte assieme. Di nuovo mi avvicino, di nuovo queste si levano in volo, ma questa volta si piazzano, svolazzando, proprio pochi metri sulla mia verticale, emettendo versi striduli. In un attimo si stringono tra loro, serrano la formazione e comincia un attacco vero e proprio. Dallo stormo si staccano in sequenza singoli individui che con una rapida picchiata mi puntano addosso. Continuo a filmare, fino a che non sento distintamente i colpi dei loro becchi sul casco. Scappo, con la telecamera che continua a registrare il mio correre in affanno sull’erba. Le sterne si posano ancora tutte assieme, in sincronia perfetta. Missione compiuta. Intruso messo in fuga. Marco, che ha seguito tutta la scena da poco lontano, è esterrefatto, non credeva ai suoi occhi, ti avevano circondato e venivano giù da tutte le parti, mi dice. Incredibile.
Ai piedi del faro, un cartello illustra le varie specie di uccelli che vengono in estate a nidificare su questo promontorio. Sotto la foto della sterna artica una didascalia in grassetto consiglia di non avvicinarle troppo perché possono diventare particolarmente aggressive; ma io di questo me ne ero già reso conto.
Proseguendo il giro del promontorio scorgiamo un cartello, di quelli che ormai conosciamo bene, quelli che indicano le strade contrassegnate dalla lettera F. Basta uno sguardo per intenderci, la direzione è giusta. Si sale di nuovo e questa volta riusciamo ad arrivare fin quasi alla cima dello Snaefellsjokull, sul versante esposto a sud, dove la neve è rimasta solo a chiazze.
Le nuvole sono scomparse. Tutto il contorno della penisola è ai nostri piedi, l’aria è limpidissima, lontano, in mezzo al mare, si scorge un profilo di terra; consultiamo la carta; probabilmente la Groenlandia, che da questo punto dista poche centinaia di miglia.
Conquistato anche lo Snaefellsjokul rientriamo rapidamente alla base, l’indomani ci attende una giornata che si rivelerà memorabile.
LA 208
Parte prima
Nel solito breefing serale in cui si stilava un percorso di massima per il giorno seguente, ed annotavamo i punti di maggior interesse, non avevamo avuto dubbi. Le opzioni erano due: o arrivare a Vik, seguendo la costa per la n°1, lungo le scogliere di Dyrholaey, oppure, con un percorso a semicerchio, girare attorno alla zona del vulcano Ekla, (quello che tre settimane prima si era portato via ponte e un pezzo di n°1), oltrepassare il rifugio di Landmannalaugar e costeggiare le pendici del Myrdalsjokull lungo le piste 26, 228 e infine la 208 per scendere di nuovo verso la costa. La prima opzione, ovviamente, è stata scartata subito.
Al rifugio di Landmannalaugar si arriva agevolmente, dopo di che inizia il tratto della 208 che scende verso Vik, ed è la parte più impegnativa di tutto il tracciato. Sono molti i turisti che raggiungono la piccola baita, edificata sulla riva di una grande vasca di acqua termale riscaldata dalle camere magmatiche dell’Ekla, proprio per fare il bagno in questo piccolo lago fumante, la maggior parte però se ne torna indietro, percorrendo a ritroso la strada fatta a salire. L’ultimo tratto della 208 è infatti famoso per i numerosi corsi d’acqua che si incrociano sul suo percorso, tanto che sulle guide viene comunemente indicata come la pista dei 22 guadi.
Negli uffici del turismo è in distribuzione gratuita un piccolissimo opuscolo con le istruzioni per l’attraversamento dei guadi, le stesse istruzioni in più lingue, sono presenti anche su dei cartelli posti sulle sponde dei corsi d’acqua più estesi. La prima raccomandazione è di attraversarli, se possibile, la mattina presto, quando il freddo della notte ha rallentato lo scioglimento del ghiaccio e della neve, riducendo quindi la portata d’acqua. Questo consiglio me lo diede anche Patric, sul traghetto all’andata. Nella sua prima esperienza con la 208, dopo aver superato alcuni guadi, si fermò per mangiare e fare foto in una valle senza rendersi conto dello scorrere del tempo. Quando ripartì, al primo guado successivo, si trovò davanti ad un torrente impetuoso, impossibile da attraversare in moto. Decise così di tornare indietro, ma anche uno dei corsi d’acqua, attraversati agevolmente la mattina, si era trasformato, a sua volta, in un torrente impetuoso, sbarrandogli la strada. Fu costretto a piantare la tenda e trascorrere la notte sul posto, e solo la mattina seguente, di buon’ora, riuscì a proseguire.
La seconda raccomandazione è di attraversarli compiendo un arco immaginario subito a valle del punto di maggior passaggio della auto 4x4. Questo perché in quella parte del letto del torrente si raccolgono la terra ed i sassi più piccoli, smossi dai mezzi più pesanti, creando una zona in cui il livello dell’acqua, generalmente, è più basso e meno accidentato.
Ancora: in alcuni attraversamenti, in particolare quelli più estesi, è possibile trovare, legato a due paletti piantati sulle rive opposte, un filo di nylon celeste. In questi casi la raccomandazione è di seguire da vicino il cavo, poiché, a monte o a valle, potrebbero esserci buche profonde, e la corrente particolarmente forte potrebbe, senza che tu te ne renda conto, spostarti anche di molti metri. Nella foto qui sotto, il mio amico Marco, dà una dimostrazione da manuale di come si procede diligentemente accanto al filo. Bravo Marco.
L’ultima informazione, in calce sia all’opuscolo che ai cartelli, è il numero di telefono, attivo 24 ore su 24 della Iceland Rescue. Efficiente, certo, ma ben poco incoraggiante.
Partiamo prestissimo, riproponendoci di visitare le scogliere di Dyrholaey tornando indietro sulla costa solo dopo aver percorso fino in fondo la 208. Prestissimo arriviamo al rifugio di Landmannalaugar, affollato di turisti che fanno il bagno, dove non ci fermiamo nemmeno per un caffè, siamo decisi, si prosegue!
Ad essere sinceri, un attimo di indecisione ci prende, davanti a questo cartello, qualche sciocco ha cancellato la c, ma il messaggio è chiaro, “deep canals whit strong current” – “canali profondi con corrente forte”.
Come dire: noi vi abbiamo avvisato.
LA 208
Parte seconda
Le moto sono, come al solito, stracariche, le mie AnakeeII sono gomme praticamente stradali, ma lo spirito d’avventura che ci ha rapiti fin dal primo istante in cui abbiamo messo piede sull’isola ci carica come delle molle. Indosso le soprascarpe antipioggia che mi arrivano fino al ginocchio e sopra ancora i pantaloni della cerata. Andiamo. Sulla nostra destra il Myrdalsjokull ci sovrasta sornione. Sappiamo che una volta iniziata la discesa, tornare indietro potrebbe essere impossibile.
Prendiamo confidenza con i primi attraversamenti, siamo ancora abbastanza in quota, l’acqua è appena all’inizio del suo percorso. E’ più a valle che corsi si allargano e prendono maggior forza, raccogliendo tutta l’acqua che scende dal ghiacciaio. Già nell’affondare le ruote nelle prime riviere, sento le pulsazioni del cuore arrivare a premere fino al sottogola del casco. Come diceva il cartello, la corrente è davvero “strong”. Nei giorni scorsi già ci era capitato di attraversare rivoli d’acqua, anche abbastanza profondi, ma roba di due, tre metri di larghezza, che si passavano di slancio.
Questi, invece, larghi anche trenta, quaranta metri, mettono soggezione, quando ti fermi un attimo, prima di affondare le ruote nell’acqua, l’altra sponda sembra lontanissima. Marco, con delle Heidenau K60 che si sono dimostrate un buon compromesso, mi precede. Le valli che percorriamo hanno dei colori sorprendenti, il terreno è prima rosso e poi nero, man mano che si scende; e l’abbondanza di acqua e di sali minerali allo stato puro, provenienti direttamente dalle viscere della terra, fanno crescere erba e muschio dal colore talmente intenso che sembra fosforescente.
Telecamera alla mano ci riprendiamo a vicenda, quelli che prima erano piccoli torrenti diventano fiumi, la valle si espande ed allarga sempre di più, ma ormai è quasi un gioco, non ci fermiamo nemmeno più sulle rive, come abbiamo fatto le prime volte, per cercare di intravedere il fondo, tentare di stimare la profondità, capire se ci siano sassi o sabbia, ci tuffiamo e basta. In lontananza già si scorge il mare e la costa.
Potrà sembrare impossibile, ma è andata esattamente così: è proprio nell’ultimo guado, quando ormai ci sentiamo gli eroi della 208, che affronto con eccessiva disinvoltura l’acqua increspata. Eppure nelle istruzioni, che ho letto e riletto, questa era un’altra delle raccomandazioni da seguire: cercate di passare dove la superficie dell’acqua è liscia che sta ad indicare un fondale più compatto. Le increspature sono il segnale di terreno più insidioso, spesso composto da sassi e pietre anche di grandi dimensioni, ma ormai sono giunto all’appuntamento con la mia terza caduta di questo viaggio. La ruota anteriore rimbalza sui sassi del fondale, le gomme fanno quello che possono ma non spingono abbastanza, mi fermo, il motore mi si spegne, ed è in questo preciso istante che la forte corrente, non più contrastata dal movimento a procedere, ha il sopravvento e mi spinge giù la moto.
Se qualcuno me lo stesse raccontando, io stesso farei fatica a credergli, eppure, in una frazione di secondo, sono giù dalla sella, raddrizzo la moto e, con l’acqua a metà coscia, la spingo fuori dal guado. Marco che mi aspettava dall’altra parte non ha nemmeno il tempo di scendere dalla sella per venire ad aiutarmi. Tutto quello che riuscirà a dire correndomi incontro per aiutarmi, mentre ormai sono praticamente già sull’altra sponda è: ma come hai fatto?
Già, come ho fatto? La verità è che non lo so nemmeno io! Sollevare controcorrente la moto carica di tutto punto, con le mie braccine che sembrano dei grissini e con i muscoli da ricamatrice di merletto che mi ritrovo. Eppure l’ho tirata su, eccome se l’ho tirata su, in pochi secondi ero già dall’altra parte a scherzare con Marco che mi riprende mentre mi sto strizzando i calzini e svuoto gli stivali.
Nessun danno alla moto, una fortuna che il motore si sia spento, senza quindi aspirare liquido. L’acqua non ha invaso lo scarico nè il filtro dell’aria, che pure mi ero portato di ricambio. Le Ortlieb, manco a parlarne, sono incredibili, tengono botta a tutto, le uso da anni, mai che sia entrata una goccia d’acqua o un granello di polvere. Ho allagato parzialmente la borsa vario laterale sinistra, quella dal lato dove la moto si è coricata e dove tenevo le cose meno importanti: la giacca della cerata, i guanti di riserva, il kit per la foratura e quello di pronto soccorso, le lampadine di ricambio. Temevo per l’altra valigia, dove invece avevo stivato, in una borsa, tutta l’attrezzatura fotografica: corpo macchina, obbiettivi e teleobbiettivi, la telecamera. Sembra che non sia entrata nemmeno un goccia, ma per sicurezza tiro fuori tutto e, controllando nelle varie tasche, assieme alle schede di memoria che mi ero portato di riserva, trovo un piccolo astuccio quadrato, color celeste, di cui mi ero completamente dimenticato. Mi ritrovo, tra le dita, come per magia, il piccolo dono di un grande amico, motociclista marchigiano, ricevuto proprio pochi giorni prima della partenza e di cui mi ero assolutamente scordato. Lo apro un istante e lo richiudo subito, come a voler proteggere un segreto. L’immagine della Madonna Nera di Loreto mi luccica tra le mani per una frazione di secondo. Proprio non ricordavo di averlo messo lì, tra le cose di cui avrei dovuto avere più cura. Sarà stata l’acqua gelata, o l’emozione del momento, ma un brivido leggero mi corre lungo la schiena mentre mi domando:.. chissà che non ci sia stata la mano di qualcuno ben più grande di noi ad aiutarmi a spingere la moto in mezzo alla corrente.
In serata troviamo alloggio in una guesthouse sperduta nel nulla di una campagna battuta da un vento che sibila impetuoso, ma la signora che ci ospita prepara una cena a base di zuppa di verdure e brodo di montone che ci fa ringiovanire di dieci anni.
Mi corico in una stanzetta rivestita di legno chiaro, sotto un piumino spesso venti centimetri. E’ stata la notte, tra quelle trascorse in viaggio, in cui ho dormito meglio di tutte. Prima di addormentarmi, invio un sms a casa: “Oggi bagno nel fiume. Tutto bellissimo”. Mi risponderanno: “Beato te, qui fa un caldo insopportabile”.
La verità su cosa intendessi per “bagno nel fiume” la conosceranno a voce, solo dopo il mio ritorno.
LA COSTA SUD
Parte prima
La costa rivolta a sud dell’isola è quella che generalmente subisce le condizioni meteo peggiori. La temperatura non è mitigata, come invece accade alla costa del nord, dalla calda massa d’acqua della corrente del golfo, che si sposta dal golfo del Messico ed arriva fino al circolo polare artico, dove, raffreddandosi, si inabissa nuovamente. Il vento freddo che arriva direttamente dai ghiacci del nord, si rafforza proprio in prossimità della costa; per finire, proprio questa parte dell’isola è sovrastata dal Vatnajokull, che con i suoi 8100 km² di superficie, è, dopo l’Antartide, la Groenlandia ed il Perito Moreno, la quarta calotta glaciale in ordine di grandezza al mondo; estesa più o meno quanto l’Umbria, giusto per avere un’idea.
Lo spessore medio del ghiaccio è di 400 metri, ma in alcune aree può arrivare ad essere spesso ben oltre un chilometro. Percorrendo in moto la n°1, ancor prima di riuscire a scorgerlo, ti rendi conto che ti stai avvicinando al Vatnajokull perché l’aria diventa frizzante e la temperatura indicata sul cruscotto comincia ad abbassarsi rapidamente. Sotto la calotta di ghiaccio ci sono diversi vulcani attivi, ultimamente il più famoso è stato il Grimsvotn, che in una delle eruzioni più recenti, ha fuso, in pochi minuti, 45.000 metri cubi di ghiaccio, dando origine ad uno jokulhlaup di proporzioni disastrose, oltre ad avere bloccato i cieli di mezza Europa per diversi giorni.
La fortuna però ci è amica anche oggi, il sole ci accompagnerà per quasi tutta la giornata. Ed anche il vento! Ci accompagnerà per quasi tutta la giornata.
Abbiamo incontrato un po’ del vento d’Islanda praticamente ogni giorno. Un vento teso, sferzante, spesso improvviso. Andava e veniva, ci ha fatto compagnia, sollevando polvere, spostando nuvole, sventolando le bandiere blu con la croce rossa bordata di bianco, sbatacchiando le piccole teste candide delle piantine di cotone selvatico.
Ma il vento incontrato lungo la costa sud mi ha impressionato davvero.
Mi ha impressionato vedere Marco, davanti a me, percorrere tratti lunghissimi di strada perfettamente rettilinea, con la moto inclinata come se stesse piegato in curva, e che curva!
Mi ha impressionato percorrere alcuni tornanti ed essere costretto a tenere la moto inclinata dalla parte opposta al senso logico della strada, proprio per contrastare la forza del vento.
Mi ha impressionato vedere i ciclisti filare come delle motorette quando lo avevano a favore, oppure essere costretti a scendere e, a piedi, spingere a fatica i loro piccoli mezzi, spesso anch’essi carichi di bagagli, quando lo avevano contro. Ma alla fine mi sono abituato anche al vento, come mi sono abituato ad entrare, sui ponti di assi di legno sdrucciolevoli, tutto sulla destra ed uscirne completamente a sinistra, dall’altra; pur avendo mantenuto una traiettoria perfettamente rettilinea. Era il vento stesso, tanto era forte, a farmi scivolare di lato senza che me ne rendessi nemmeno conto.
La prima tappa di giornata è Kirkjubaejarklaustur. Non potevamo non passarci. Non che ci sia niente di particolare, è il nome stesso del paese a renderlo unico. Sulle indicazioni stradali è riportato abbreviato, e persino gli islandesi, che in quanto a nomi strani delle località, non scherzano per niente, non lo pronunciano per intero, ma usano un soprannome. Il nome significa: paese della chiesa, della fattoria e del convento. La chiesa e la fattoria ci sono, il convento, no. Questo è tutto. E’ più grande il segnale di località che il paese stesso. Una foto e si prosegue. La laguna glaciale di Jakullsarlon, ed il Vatnajokul ci aspettano.
La laguna glaciale di Jakullsarlon, è formata dallo scioglimento di una delle lingue di ghiaccio più estese del Vatnajokull, in un punto in cui si protende fino al mare. Dal fronte del ghiacciaio, che sembra una alta scogliera, si staccano e crollano, con fragore, enormi iceberg che sciogliendosi lentamente, si dirigono verso il mare. Tutta la laguna è piena di questi blocchi, dalle mille sfumature. I colori che vanno dal celeste intenso al bianco candido, sono indescrivibili, ma non solo, alcuni blocchi presentato diversi strati di striature scure.
Le striature sono il segno di eruzioni, qualcuna nemmeno troppo lontana nel tempo, che hanno depositato sul bianco manto nevoso, uno strato di fuliggine, che poi a sua volta è stato ricoperto da nuove nevicate. Questa meraviglia della natura è però soltanto il preludio di immagini ancora più spettacolari. E’ spostandosi proprio sulla riva del mare, dove i blocchi si accalcano, spinti indietro dalla marea, che ci si trova davanti a centinaia di sculture di ghiaccio, modellate da mani invisibili e dalle forme più inverosimili. Rimangono, gocciolanti, allineate sulla riva, come in un museo all’aperto, ed è davanti a queste opere d’arte uniche, che ti rendi conto che mai esisterà uomo, dall’estro così grande, capace di modellare forme, come il mare, il vento o l’acqua, sanno fare.
Sopra e sotto gli iceberg più grandi, giocano e pescano decine di foche, incuranti del flusso dei turisti che fanno di tutto per attirare la loro attenzione.
Davvero a malincuore si riparte da un luogo del genere, dove il lento sciogliersi del ghiaccio fa mutare continuamente le forme e il paesaggio. Un luogo dove ogni istante è unico e, probabilmente, non si ripeterà mai più.
LA COSTA SUD
Parte seconda
Ormai sono diversi giorni che siamo in Islanda; non voglio dire che siamo diventati degli esperti, però abbiamo preso maggior confidenza con l’orografia del terreno, maneggiamo le carte con più disinvoltura, e così riusciamo ad individuare con facilità le “F” più interessanti.
La ciliegina sulla torta della giornata infatti è la F985, cerchiata a pennarello sulla mappa, già dalla sera prima. Si imbocca qualche decina di chilometri a sud della laguna e arriva nel punto più alto del Vatnajokull, raggiungibile con mezzi a motore dotati di ruote. Oltre si sale solo a piedi o con le motoslitte. La guida, che ormai è diventata la nostra bibbia, ci avvisa che la strada è: spesso interrotta per frane, spesso ghiacciata anche in estate, spesso soggetta a bufere di neve, insomma, un elenco di spesso da far sorgere più di un dubbio se valga la pena di proseguire o meno, ma noi ce ne freghiamo, ci mettiamo tre minuti a depositare le valige in una fattoria in zona che fa B&B e che ci era stata indicata dalla signora della zuppa di verdure e montone, la sera prima. Altri tre minuti e siamo all’imbocco della pista. Del resto uno non viene in Islanda mica tanto spesso, quindi meglio approfittarne finche ci siamo.
La 985 si presenta subito dandoci del tu, con degli strappi belli ripidi cosparsi di pietroni acuminati. Il fondo è viscido. Insomma: state risalendo le pendici di sua maestà Vatnajokull, pare ci voglia avvisare, potevate pensare che fosse una passeggiata? Il pensiero che poi dovremo rifarla a scendere ci preoccupa non poco, ma salire costeggiando una delle lingue di ghiaccio più estese al mondo è un’esperienza che non ha eguali.
Da una parte si alternano pietraie e strapiombi, dall’altra ghiaccio a perdita d’occhio.
Una quindicina di chilometri di montagne russe e la strada d’improvviso si spiana, il fondo migliora, la salita diventa dolce, stiamo camminando su di uno dei crinali che dividono ed incanalano le enormi masse di ghiaccio che scivolano lentamente a valle.
Peccato che le nuvole basse coprano quasi del tutto “sua maestà”, riusciamo soltanto ad intravvedere la sagoma imponente davanti a noi che, al contrario di tutti gli avvertimenti negativi, ci riceve con benevolenza e qualche timido raggio di sole che filtra tra le coltri di nubi. Il termometro segna 5 gradi, ma non fa freddo, l’assenza quasi assoluta di umidità rende anche le temperature più rigide quasi normali.
Ci fermiamo incantati ad ammirare il ghiaccio che ormai è sotto di noi e si estende a perdita d’occhio. Laggiù in fondo, una piccola cordata di escursionisti con piccozze e ramponi si inoltra su di una distesa di onde celesti sbavate di spruzzi marrone scuro.
Sono i resti dell’ultima spennellata di fuliggine, avvenuta non più tardi di quattro settimane prima. Impossibile non fermarsi un attimo a riflettere su quanto piccola cosa siamo noi, genere umano, ospiti, spesso ingrati, di questo mondo meraviglioso ed imponente.
La pista finisce a poche centinaia di metri da un piccolo rifugio, che raggiungiamo a piedi per un caffè. Il caffè in Islanda meriterebbe un capitolo tutto suo, ma per farla breve, basta sapere che per il controvalore di circa due euro, ti viene consegnato un bicchiere di carta dimensioni “coca media” e indicato un bidone con rubinetto da cui puoi attingere quanto e quante volte vuoi. E’ una bevanda calda, piacevole, da condire con crema di latte o yogurt, che abbiamo apprezzato in diverse occasioni, ma che nulla ha a che vedere col caffè come lo intendiamo noi.
Proprio accanto al distributore del caffè, attaccata al muro, una carta topografica mostra la calotta di ghiaccio in tutta la sua estensione. Nella parte bassa della carta, sulla destra, al bordo di una sottile striscia dal colore bianco/azzurro del ghiaccio, una minuscola freccia rossa, indica: voi siete qui.
Resto a bocca aperta dalla meraviglia e dallo stupore. Perché si fa presto a dire 8100 km², ma come si fa a spiegare quanto sia davvero imponente una estensione del genere?
La lingua che abbiamo costeggiato durante la salita e che a noi è parsa una distesa infinita di ghiaccio, con le persone che la stavano attraversando, piccole come delle formiche, non è altro che una infinitesima parte di tutto il Vatnajokull.
Desidero acquistare quella carta, ma il gestore le ha finite. E’ evidente che chiunque entri nel rifugio rimanga colpito dall’enormità delle proporzioni, come è accaduto a me. L’ho cercata anche il giorno seguente senza trovarla, finite ovunque. E’ la carta topografica più venduta in assoluto, non fanno in tempo a stamparla che va esaurita. Peccato, anche perché la mia carta stradale non è fedele nelle proporzioni.
Noi, le nostre moto, il rifugio, non siamo altro che un puntino microscopico al bordo di una mare infinito di ghiaccio e neve perenne. Davvero impossibile da descrivere, difficile da immaginare.
Restiamo a parlare col ragazzo del bar, che racconta di come, ad inizio luglio, quando sono arrivati ad aprire il rifugio, siano dovuti salire con la motoslitta e scavare un tunnel attraverso i metri di neve che ancora coprivano la costruzione fino al primo piano, per arrivare alla porta di ingresso.
La discesa ci da un bel po’ da fare, ma il freno motore del boxer fa miracoli, in prima o seconda, senza toccare gas, arriviamo rapidamente di nuovo sulla n°1. Sappiamo esattamente dove andare: Hofn, capitale della pesca dei gamberi. Le dimensioni di questi crostacei, pescati nelle gelide acque antistanti la costa sud dell’isola, sono coerenti con quelle del Vatnajokull. Dai carapaci, aperti a metà e fatti alla brace, escono pezzi di polpa grandi quanto una coscia di pollo. La carne ha un profumo sensuale, un gusto intenso e delicato allo stesso tempo. Squisita! Sulla guida, una sosta ad Hofn ed una cena a base di gamberi erano caldamente consigliate. Io aggiungo che, se passando da quelle parti non ci si ferma a gustare queste prelibatezze, si commette peccato mortale e la giusta pena è finire all’inferno per l’eternità.
La laguna glaciale, il Vatnajokull, i gamberi, il volo maestoso delle oche artiche che ci accompagna sulla strada del rientro, è tardi, ma con il sole che, come sospeso nel cielo, non vuole scendere, come si fa ad andare a dormire? E poi ci stiamo avvicinando inesorabilmente al giorno della partenza. La Norrona, in queste ore, ha già intrapreso il primo dei due giorni di viaggio. Ha già lasciato la Danimarca, carica di camper, fuoristrada, moto, biciclette, che prenderanno il nostro posto sulle strade e le piste di quest’isola meravigliosa. Impossibile tenere a freno la tristezza. Impossibile fermare il tempo. Prima di addormentarmi scorro qualcuna delle foto scattate nei giorni precedenti, ma mi fermo subito, un senso di nostalgia già mi prende il cuore. Sono bastati pochi giorni di permanenza in Islanda e già comprendo meglio il senso di tanti dei racconti di Patric e del suo amore infinito per questa terra affascinante che ha già cominciato a stregare anche me.
ARRIVEDERCI ISLANDA
Probabilmente potrei scrivere un libro, se solo ne fossi capace, tante e tanto intense sono state le emozioni vissute in questo viaggio. Ogni istante è stato unico, sorprendente, entusiasmante, commovente, irripetibile, emozionante. Centinaia i piccoli episodi che meriterebbero di essere raccontati.
Ho trascorso giornate percorrendo chilometri e chilometri di piste nella più completa solitudine. Altre volte, ho incontrato persone meravigliose, anche a piedi o in bicicletta, persino nei posti più incredibili ed isolati, con cui ho provato il piacere intenso di condividere l’emozione di uno scorcio di panorama, scambiare poche semplici parole, dividere un pezzo di cioccolato o un caffè.
Ho conosciuto prima e viaggiato poi, su alcune delle piste più impegnative, con Marco. Grande uomo, persona vera e semplice. Motociclista di razza. Rispettoso di se e degli altri. Capace di emozionarsi e stupirsi, come me, al cospetto dei luoghi che attraversavamo, delle meraviglie che incontravamo.
Ho lottato col vento sferzante della costa sud, che mi costringeva a viaggiare con la moto inclinata come se stessi in curva. Ho corso come un pazzo sulle “gravel road”, sollevando nuvole di polvere che guardavo negli specchietti disperdersi al vento.
Ho attraversato deserti, torrenti, valli, paesaggi, scalato montagne fin dove io e la mia moto, stracarica, ce la facevamo. Raggiunto orizzonti che parevano lontanissimi. Tutti posti che, soltanto un mese prima, mai sarei stato capace neppure di immaginare.
Ho percorso tratti di strada affiancato dal volo maestoso delle oche, ho visto il mare imbiancato da migliaia di cigni, sono stato aggredito e scacciato dal loro territorio dalle sterne artiche.
Ho visto l’infinità di colori di questa terra, unica nel suo genere, dipinti dall’intensità di una luce che solo a queste latitudini esiste.
Ho girato ore di video, scattato un numero esagerato di foto, eppure non c’è un’ immagine, una sola, capace di restituirmi per intero le impressioni vissute, le emozioni provate.
L’Islanda è una terra difficile da raccontare. Le parole e le immagini non basteranno mai a descrivere le sensazioni. E’ una terra priva di confini logici, che si fa burla dei limiti della fisica. Una terra in cui l’acqua bollente sgorga dal terreno ghiacciato.
Una terra dove le parti si invertono: sovente la notte è chiara ed il giorno è scuro, così che la luce pare non avere fine, ne inizio. Una terra dove le nuvole che scendono dal cielo si uniscono a quelle di vapore che salgono dal suolo, a confondere la linea dell’orizzonte.
Una terra perennemente in conflitto con sé stessa.. Fuoco ed Acqua si affrontano incessantemente. Batterie di vulcani fanno esplodere ghiacciai, aprono varchi e ferite nelle corazze gelate, pronte a richiudersi non appena il rombo si acquieta.
Mi sembra ieri che son partito. Ieri che, dopo tre giorni di terra attraverso l’Europa, e due giorni di navigazione nel Mare del Nord, per approdare nel minuscolo porto di Seydisfjordur, sono sbarcato sulla Terra di Fuoco e Ghiaccio.
ARRIVEDERCI ISLANDA.
Enrico Benchimol
Informazioni
Tutte le foto di questo viaggio sono del mio amico Marco e mie.
Qui una piccola selezione delle mie.
Qui, invece qualche artigianale mini clip.
A questo punto, qualche informazione utile.
Sono considerazioni personali, condivisibili o meno, non questioni pratiche del tipo quali documenti servono o a quanto corrisponde il cambio, quelle è facile trovarsele da soli, sono cose che farei o non rifarei se dovessi tornare in Islanda, ma mi auguro che possano comunque servire.
PRIMA DI PARTIRE
Comincerei dal sito della compagnia che effettua la traversata dalla Danimarca all’isola: la Smiril Line. Le informazioni sono tante ed esaurienti. La prima cosa su cui occorre ragionare è se optare per il viaggio con sosta di due giorni alle isole FaerOer oppure no. Per gli alloggi, la catena degli Edda Hotel è una garanzia, ma se vi portate un sacco letto ed avete un po’ di spirito di adattamento, le alternative, anche senza prenotazione, sono innumerevoli.
Altre info le trovate digitando sul vostro motore di ricerca preferito “visit iceland”; oppure curiosità, notizie varie, qualche gossip, e belle foto, su “iceland rewiew”.
Prenotando i pasti contestualmente al biglietto della traversata si gode di un piccolo sconto. Io li avevo prenotati tutti; bene, scartate il pranzo; il “today meal” di mezzogiorno non vale quello che costa. Mentre il buffet serale e quello della colazione li consiglio caldamente, soprattutto il secondo. La mattina cominciavo alle 8 con frutta fresca, poi affettati e formaggi, poi dolci e frutta sciroppata, poi pane, burro e marmellate, poi ricominciavo dalla frutta fresca e andavo avanti fino alle 10/10e30, ora di chiusura del buffet. Insomma la mattina mangiavo veramente in modo esagerato.. e stavo bene fino a sera.
Delle cabine ho già detto, credo che la differenza di prezzo tra le cuccette da 9 e la cabina da 4 meriti il sovraprezzo.
Procuratevi una cartina stradale dettagliata dell’Islanda. A me piacciono le Reise Know How. Nelle nostre librerie non è facile trovarle, ma si può sempre cercare su Internet. In alternativa potete richiederla qui.
Un paio copie ve le spediscono gratuitamente, vi arriveranno in pochi giorni. Non è dettagliatissima, ma per cominciare ad organizzare le tappe va più che bene, nel caso, quella più fedele ve la comprate appena sbarcati. Non contate troppo su Google maps poiché sono molte la strade e le piste che non individua. Io per scelta personale non possiedo un gps, mi piace lavorare all’antica, con le carte “di carta” ed il pennarello, ma qualche traccia su Internet si trova. La guida a cui mi riferisco spesso nel mio diario è la diffusissima Lonely Planet.
Dedicate qualche minuto a questo sito e guardate i videoclip. Spiegano, meglio di quanto abbia fatto io, le regole di precedenza sui ponti e descrive quanto insidiosi possano essere i cigli delle Gravel Road dove generalmente si accumula il pietrisco spostato dalle auto.
Qui trovate, aggiornate in tempo reale, tutte le info sulle condizioni delle strade e delle piste interne.
Cliccate sui quadranti dell’immagine dell’isola in alto a destra per la viabilità ed a metà pagina a sinistra per le webcam, temperatura ed intensità e direzione del vento. Qui altre webcam.
Per quanto riguarda la moto, ognuno se la sistemi come meglio crede. Solo una nota sulle gomme (diatriba infinita!). Ho fatto tutto il viaggio con le AnakeeII e, a parte qualche tratto decisamente impegnativo, mi sono trovato benissimo. La mia moto, un GS, parlo per me, non è una moto da cross, soprattutto se stracarica di bagagli, riconosciamole i suoi limiti o i limiti del nostro manico ed apprezziamo invece le sue capacità di viaggiatrice instancabile.
Informazioni traghetti
Ti ringrazio
Michele Durante cell. 346 8287918
6 DAVVERO UNICO!!!
Grazie Mille.