MotoGP. Yamaha e Quartararo, la storia si ripete?
Fa un po’ strano pensare a un pilota che vince un titolo iridato - come ha fatto Fabio Quartararo - e subordina a un impegno tecnico della Casa il rinnovo del contratto. Yamaha ha promesso miglioramenti, ma Fabio non sembra averne riscontrati: nei test di Jerez, poi di Sepang e infine di Mandalika le dichiarazioni del francese non sembrano proprio quelle di un pilota soddisfatto nelle sue richieste. D’altra parte, il nostro Zam ha dichiarato senza mezzi termini, nelle dirette con Manuel Pecino, che la Yamaha M1 sembra esattamente la stessa dell’anno scorso.
Quartararo ha lamentato più volte un motore lento, troppo lento per lottare contro le Ducati e le Honda, protesta che i rilevamenti di velocità massima hanno sempre corroborato. La M1 - non solo quella di Fabio - è costantemente il fanalino di coda in velocità di punta.
Problemi di potenza pura, ma anche di accelerazione: i piloti Yamaha lamentano da diverse stagioni (soprattutto da quando è arrivata l’elettronica unica a vanificare tutto il lavoro di sviluppo fatto dalla Casa di Iwata dal 2007 ad allora) difficoltà nel mettere a terra la potenza. Uno spinning difficile da gestire e quindi un gap in progressione sui rettilinei che magari non penalizza troppo il tempo sul giro, dove la percorrenza e l’efficacia in inserimento compensano il suddetto gap, ma che in gara, quando si deve lottare contro avversari che possono vantare superiorità motoristica, rende un vero incubo conquistare o recuperare posizioni.
Analizziamo però i risultati: nel 2021 Quartararo ha vinto - fra le altre - Qatar, Mugello, Silverstone. E probabilmente avrebbe vinto anche al Catalunya, senza il problema alla tuta di pelle. Tutte piste velocissime. Ma allora il problema dove sta?
Il segreto è la qualifica
Guardiamo un po’ meglio: su tutte quelle piste, dove effettivamente ci sono lunghissimi rettilinei ma anche curvoni molto veloci e poche ripartenze dalla bassa velocità, Quartararo ha azzeccato dei gran giri in qualifica. Se non è partito in pole, come al Mugello o al Catalunya, è comunque scattato dalla prima fila (terzo a Silverstone) o alla peggio quinto, a Doha, dove ha vinto convincendo, ma anche approfittando degli errori di Bagnaia, Miller, e giocando d’esperienza quando se l’è dovuta vedere con la Ducati di Jorge Martin. Non si è trovato a dover lottare (troppe volte) con chi gli staccava le carenature sul rettilineo vanificando la sua percorrenza di curva.
Insomma, le vittorie e il titolo Fabio se l’è dovuti sudare, nonostante una classifica che lo ha visto praticamente sempre in testa. È vero: viste le condizioni dei compagni di marca non abbiamo forse la reale percezione di quanta differenza abbia fatto, fatto sta comunque che è stato l’unico a portare la M1 a quel livello. E nei test invernali la situazione è stata identica.
Comprensibile quindi che Fabio punti i piedi al momento del rinnovo, anche se l’impressione è che voglia semplicemente capitalizzare la posizione di forza sopra citata. Al momento, lui è l’unico - almeno sulla carta - su cui Yamaha possa puntare per bissare il titolo. Binder è un debuttante, Dovizioso è ben lontano dalla migliore intesa con la M1, e su Morbidelli purtroppo gravano ancora troppi interrogativi che speriamo si dissolvano a breve.
Insomma, un gioco delle parti: Fabio fa pesare la sua posizione, sapendo che Yamaha non può o comunque non vuole lavorare sul motore (Jarvis l’ha detto più o meno chiaramente: quando a Iwata sono andati a cercare più potenza i risultati sono stati quantomeno discutibili) e quindi lui resta il personaggio chiave del binomio, ma nella realtà non ha una reale intenzione di abbandonare la sella della M1, limitandosi a cercare di strappare un contratto più favorevole. Perché la storia riporta infiniti esempi di Yamaha estremamente efficaci e vincenti nonostante doti di potenza massima non certo eclatanti.
La filosofia Yamaha
Qualunque pilota abbia corso a un certo livello con Yamaha, sia 500 che 250 e finanche in Superbike ve lo può confermare: a Iwata hanno sempre prodotto moto equilibrate. Moto guidabili, con una sostanziale integrazione prestazionale fra motore e ciclistica, raramente brillanti in termini di potenza o velocità massima - storicamente prerogative delle Honda NSR ed RCV, prima dell’arrivo della Ducati Desmosedici - che però i piloti riuscivano a sfruttare al meglio, perché i circuiti, come recita un vecchio adagio, hanno almeno quindici curve ma al massimo due rettilinei degni di tale nome. Il problema veniva quando ci si trovava davanti uno che su quei rettilinei ti dava un distacco impossibile da colmare in staccata, tema riproposto anche con le 500 bicilindriche…
Ma torniamo a noi: fin dai tempi di Giacomo Agostini, che regalò il primo successo alle 500 Yamaha, il segreto delle moto dei tre diapason non stava nella potenza (come si sarebbe potuto pensare vedendo il primo vero scontro fra due e quattro tempi) ma nella guidabilità. Ma pensate anche a Lavado, Garriga, Cadalora, Kocinski e anche Jacque in 250: velocissimi in percorrenza, sui curvoni veloci, ma inesorabilmente sverniciati dalle Honda e poi dalle Aprilia sui rettilinei. E però vincevano a Rijeka, al nuovo Nurburgring, a Salisburgo e a Phillip Island, piste non certo lente.
In 500 era lo stesso discorso. Lawson, Rainey, di nuovo Cadalora e Biaggi dovevano strizzare ogni cavallo sui rettilinei per non perdere il contatto dalle NSR. Però poi succedeva che a Hockenheim, la pista più veloce del campionato, quella dove il Lawson passato alla Honda aveva pronosticato l’esistenza di una “Honda Lane”, una corsia preferenziale per la NSR in rettilineo, vinceva la YZR. Perché usciva più forte dalla curva prima, perché se il pilota era capace di guidarla teneva un passo infernale per tutta la gara, perché usurava meno la gomma… insomma, perché era una moto equilibrata. Ma come dicevamo, servivano piloti capaci di sfruttarne al massimo le doti ciclistiche.
Anche con l’arrivo della MotoGP, dopo qualche falsa partenza, non ricordiamo la M1 nelle vesti di moto più performante in rettilineo. Diciamo che ci sono stati anni in cui ha sofferto meno, quando la potenza era un po’ troppa per tutti e la differenza la faceva la capacità del pacchetto (ciclistica, motore, elettronica) di metterla a terra: in quelle stagioni diversi piloti brillavano con la Yamaha. Ma si tratta di eccezioni.
Il pilota che fa la differenza
Il problema se mai è un altro. Sempre guardando in prospettiva storica, Yamaha ha sempre avuto la tendenza a sedersi sugli allori quando ha avuto in squadra un pilota capace di fare davvero la differenza, causando brutti mal di testa a chi veniva dopo e incappando in tremende serie negative.
È successo dopo Rainey. Dopo l’orribile incidente del 1993, Yamaha si è trovata a dover fare a meno di un pilota incredibile. Non che Cadalora o Beattie fossero degli scappati di casa, ma non avevano quello stile di guida che consentiva a Wayne di guidare “sopra i problemi”. La YZR non era certo perfetta, in quegli anni: Kenny Roberts arrivò a provocare la casa madre provando e usando i telai ROC invece di quelli ufficiali, ma a Iwata non ci fu certo quella reazione necessaria a colmare il gap di competitività che serviva.
Il nostro Cadalora, nel tentativo di rendere ancora più sfruttabile la YZR, chiese e ottenne un po’ di lavoro di sviluppo sul telaio. La storia narra di un Rainey un po’ offeso dalla situazione che chiese a Roberts come mai per Cadalora venissero prodotti quei telai che lui non aveva mai ricevuto. Roberts, profondo conoscitore della Casa di Iwata (che anni più tardi abbandonò sbattendo la porta proprio per il suo immobilismo) rispose “Tu non ne avevi davvero bisogno…”
Cadalora e Biaggi non erano certo dei fermi, ma non riuscirono a riportare al successo la Casa di Iwata che dopo Rainey affrontò il più lungo periodo di digiuno della sua storia. Ci volle Valentino Rossi, nel 2004 - e gli investimenti che Masao Furusawa riuscì a strappare alla Casa madre facendo leva sul suo arrivo - per farla tornare alla vittoria.
Ma se guardate alla storia recente, appare evidente come le prestazioni prima di Rossi, poi di Lorenzo e infine di Quartararo abbiano permesso a Yamaha di “sedersi” un po’ senza che il reale problema di competitività venisse fuori in tutta la sua gravità. Il rischio è anche in questo caso che le prestazioni di un fuoriclasse - e adesso stiamo parlando di oggi, di Quartararo - mascherino la reale situazione e offrano una scusa a chi in Giappone tiene i cordoni della borsa: se abbiamo appena vinto il titolo, conquistando vittorie sulle piste più veloci del Mondiale, che bisogno c’è di investire sul motore?
La speranza, invece, è che chi deve prendere queste decisioni abbia la saggezza di ascoltare chi la moto la porta sui circuiti, dai piloti ai tecnici. E magari guardi al passato. Altrimenti, come recita quel vecchio adagio di incerta paternità, chi non ricorda la storia è condannato a ripeterla…
Yamaha, di contro, non ha migliorato in velocità di punta, quindi, avendo gli altri migliorato la percorrenza, escono dalle curve più forte e migliorano l'accelerazione. Il gap in velocità diventa quindi incolmabile.
E' molto semplice da capire, è sufficiente guardare una gara di 5-6 anni fa, Yamaha usciva dalle curve con molta spinta, proprio perchè aveva un sacco di percorrenza in più degli altri. poi quando si metteva 5a e 6a le altre andavano, ma almeno a fine rettilineo arrivavano vicini.
Adesso, per yamaha, è difficilissimo superare. Quartararo lo ha capito, e quando, in due anni, le uniche cose nuove sono una carena e un parafango, qualche domanda te la fai...
Non ci sono idee, ha ragione bernardelle, non sanno cosa fare per dare ai piloti ciò che serve.
Mir e Rins hanno chiesto un motore e un motore è arrivato, Bagnaia chiedeva maggior percorrenza ed è arrivata una moto completamente nuova, Espargaro e marquez chiedevano più grip e in Malesia Honda ha portato 4 moto a testa... Questo è sufficiente.
Se Quartararo resta, è solo perchè non ha altre alternative valide. E secondo me va in Honda o in Suzuki.