Come si progettavano le moto senza il computer?
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Le moto sono cambiate molto nel corso degli anni e anche il modo di progettarle e di costruirle ha subito una notevole evoluzione.
Ogni tanto parliamo di corse e moto del passato e mostriamo foto dell’epoca. Si tratta di immagini significative, che evocano anni resi irripetibili dalla crescita economica e dal progresso (che dà tanto, ma inevitabilmente toglie qualcosa).
Stavolta parliamo brevemente di come nascevano le moto in un passato neanche tanto lontano. I risultati che sono stati ottenuti in molti casi hanno quasi dell’incredibile, se si considerano i mezzi dei quali si disponeva e le condizioni nelle quali si lavorava.
Quasi tutte le principali case motociclistiche italiane sono nate da costruttori artigianali di biciclette, in zone nelle quali c’erano una certa tecnologia, una buona tradizione in campo meccanico e dove esisteva un indotto, costituito da piccole fonderie, da artigiani in grado di effettuare lavorazioni di precisione, da modellisti e da battilastra.
Non è un caso se vengono in mente Bologna, Milano e quella parte della Lombardia che va da Varese a Bergamo.
Molte case avevano dimensioni artigianali e il progettista spesso svolgeva anche diverse altre mansioni; effettuava scelte non solo tecniche ma anche estetiche e di mercato, decidendo le caratteristiche complessive che il modello doveva avere. Inoltre fungeva da ufficio acquisti, contattando i fornitori e prendendo assieme ad essi importanti decisioni legate alla produzione.
In diversi casi era proprio il fondatore della azienda che decideva come doveva essere fatto il motore.
Le sue scelte di base venivano poi messe sulla carta da un disegnatore, che provvedeva anche a tracciare le quote, sotto la sua supervisione. Un’altra figura chiave era il modellista, indispensabile per poter passare alla fase esecutiva.
Non poche modifiche al progetto originale venivano apportate in seguito a sue specifiche indicazioni. Certe volte si trattava di suggerimenti su come realizzare certi componenti in maniera più razionale. A Bologna è rimasto giustamente famoso Marcello Laurenti, che in effetti era molto più di un modellista; in alcuni motori il suo intervento era più importante di quello del progettista. Anzi, alcuni li ha proprio progettati lui, che era anche un eccellente disegnatore tecnico.
Certi motori da corsa degli anni Cinquanta e Sessanta sono frutto della stretta collaborazione di due persone (e talvolta anche tre). I motori da corsa della MV Agusta venivano disegnati da Mario Rossi coadiuvato dai suoi uomini dell’ufficio tecnico (che pare fossero 5 o 6) ma le scelte di base le faceva il conte Agusta, che in fatto di tecnica aveva le idee molto chiare. Per i calcoli, c’era un collaboratore esterno.
Nella seconda metà degli anni Settanta ho chiesto al ragionier Marchetti chi avesse progettato il motore del Corsaro 125, che aveva avuto a lungo un grande successo. Mi ha risposto: “scriva che lo ha fatto l’ufficio tecnico Morini”. All’epoca quest’ultimo era composto da tre sole persone (Franco Lambertini, Marchesini e un giovane disegnatore) ma vent’anni prima, quando era stato progettato il monocilindrico che poi avrebbe equipaggiato il Corsaro, chi c’era?
È probabile che il motore in questione sia nato da una collaborazione tra Alfonso Morini (che di tecnica se ne intendeva davvero) e l’abile Marchesini, che per la stesura dei disegni quotati definitivi ha potuto poi contare anche su un giovane assistente.
Ho il sospetto che durante gli anni Trenta (e fino ai primi anni Cinquanta) alcuni costruttori, anche abbastanza noti per la validità dei loro prodotti, ma di dimensioni artigianali, un vero e proprio ufficio tecnico non lo avessero nemmeno.
Per contro, le case più grandi ne avevano sicuramente uno, ed era anche bene organizzato. Di supporti esterni non ne avevano bisogno. Addirittura alcune avevano all’interno dello stabilimento una fonderia e un reparto battilastra. Questo consentiva loro di farsi tutto in casa. Molte altre facevano internamente solo le lavorazioni meccaniche mentre altre ancora si affidavano a valide ditte esterne, specializzate in questo campo.
A Bologna era famosa l’officina Drusiani, che dalla fine degli anni Quaranta è stata acquisita da Giuseppe Boselli ed è diventata il reparto corse della Mondial. Quest’ultima casa un ufficio tecnico non lo ha praticamente mai avuto e del resto neanche uno stabilimento di produzione.
Faceva progettare esternamente i suoi motori, che poi venivano costruiti in serie, sempre a Bologna, dalle officine specializzate di Amedeo Rocca e Mario Michelini.
A Milano negli anni Trenta e nel dopoguerra l’approccio sembra essere stato in genere un poco diverso. La mentalità appariva complessivamente più industriale e meno artigianale. Un esempio interessante è quello della Parilla che da semplice officina autorizzata Bosch in pochi anni è cresciuta fino a diventare una delle più importanti realtà nazionali.
Il suo nuovo stabilimento era dotato di attrezzature moderne e di elevato livello, in grado di svolgere quasi tutte le lavorazioni, i severi controlli erano effettuati da fior di specialisti. C’erano una efficiente attrezzeria e un ufficio tecnico a capo del quale nel corso degli anni sono stati uomini del calibro di Salmaggi e di Bossaglia.
D’altro canto, quando Michelini è stato a Milano per allestire il nuovo stabilimento della Mondial che avrebbe dovuto costruire anche i motori (cosa mai avvenuta), si è trovato in difficoltà proprio con l’indotto.
Diceva di non riuscire a trovare fornitori artigianali appassionati e disponibili come quelli che c’erano a Bologna. Per avere un’idea di questa differenza, si pensi che alla Morini ancora negli anni Settanta ogni mattina arrivava un “omarino” in bicicletta con un cestone nel quale c’erano i cavi flessibili (del gas e della frizione) necessari per la produzione quotidiana. Li aveva costruiti il giorno prima nel suo laboratorio casalingo…
Alla fine degli anni Trenta le case motociclistiche italiane con stabilimenti di cospicue dimensioni e attrezzati di tutto punto sotto l’aspetto industriale erano in pratica solo la Benelli, la Bianchi, la Guzzi, la Gilera e la Sertum. Quattro si trovavano in Lombardia, due avevano iniziato la loro attività agli albori del XX secolo e due proprio all’inizio degli anni Venti.
A Bologna negli anni Cinquanta la Ducati era l’unica realtà veramente grande, come dimensioni dello stabilimento e dotazione di attrezzature, nel settore delle due ruote. Non era partita da zero, in quanto branca di una industria di notevoli dimensioni che lavorava nei campi sia della meccanica di precisione che della elettrotecnica e dell’ottica.
Già nei primi anni del dopoguerra, grazie al Cucciolo, i suoi volumi di produzione erano assai considerevoli. Come ovvio, il fatto di essere statale ha aiutato molto, in seguito, consentendole di sopravvivere e di crescere nonostante un flop clamoroso come quello dello scooter Cruiser e nonostante il fatto che i costi di fabbricazione di diversi modelli e quelli di gestione (leggi grande numero di dipendenti) fossero elevati.
L’organizzazione era comunque di prim’ordine e, a differenza di quanto accadeva per altre case nostrane, la rete di vendita all’estero, molto efficiente, puntava su tanti mercati e non solo su due o tre.
- Nonno, lo sai che noi a scuola usiamo i tablet, le penne ottiche, i computer e le lavagne interattive? Voi cosa usavate?
- Mio caro, noi usavamo la testa.