Le prime maxi moto giapponesi e italiane erano monoalbero
Nella maggior parte degli anni Sessanta tra le moto europee di serie hanno continuato ad impiegare un albero a camme in testa solo le monocilindriche Ducati. Tutte le altre avevano la distribuzione ad aste e bilancieri.
Questo, prima della entrata in scena della Laverda con le sue bicilindriche 650 e 750, presentate nel 1966. In Giappone però in tutto il decennio in questione la Honda ha costruito decine e decine di migliaia di bicilindriche di piccole cilindrata con distribuzione monoalbero comandata a catena.
Già nel 1959 è entrata in produzione la CB 125 e l’anno successivo ha fatto la sua comparsa la CB 72 di 250 cm3, per la quale veniva dichiarata una potenza di ben 24 CV a 9000 giri/min. Il motore aveva misure caratteristiche perfettamente quadre (54 x 54 mm). Con identica corsa ma alesaggio portato a 60 mm per diversi anni la grande casa giapponese ha prodotto eccellenti modelli di 305 cm3, che come gli altri hanno avuto un grande successo. Questi motori erano tutti a due cilindri paralleli ma sono stati realizzati con differenti schemi.
Alcuni avevano l’albero a gomiti supportato da due soli cuscinetti di banco, con catena di distribuzione collocata lateralmente; la trasmissione primaria non sempre era a ingranaggi. In diversi casi le camere di combustione erano ricavate in calotte di ghisa incorporate di fusione e di norma la pompa dell’olio era a pistoncino. Alcuni dei primissimi modelli avevano la trasmissione finale sul lato destro, a differenza di quanto è poi diventato tipico di tutta la produzione giapponese.
Nei motori di cilindrata maggiore si è standardizzata la soluzione che prevede quattro cuscinetti di banco e la catena di distribuzione in posizione centrale. Le manovelle a 180° hanno iniziato ad essere impiegate sui motori di 250 e di 305 cm3 attorno alla metà degli anni Sessanta.
Occorre infine ricordare che la bicilindrica CB 450, entrata in produzione nel 1965, non rientra in questa panoramica in quanto dotata di distribuzione bialbero.
Quando i quadricilindrici sono diventati i modelli di punta della sua gamma, la Honda ha adottato anche per essi una distribuzione monoalbero.
Ad aprire la serie è stata la famosa CB 750 Four, presentata sul finire del 1968 e arrivata sul nostro mercato svariati mesi dopo. La catena che comandava l’unico albero a camme in testa era collocata centralmente e prendeva il moto direttamente dall’albero a gomiti. Le camme azionavano le valvole, inclinate tra loro di 58°, per mezzo di bilancieri a due bracci muniti di un pattino arcuato sul quale era depositato un sottilissimo riporto di cromo duro.
Nel motore, dotato di un alesaggio di 61 mm e una corsa di 63 mm, spiccavano l’albero a gomiti in un sol pezzo che lavorava su bronzine, la lubrificazione a carter secco e la trasmissione primaria affidata a due catene a rulli affiancate. Pure le altre quadricilindriche Honda della prima generazione, ovvero le famose Four (CB 500, CB 350 CB 400, più le successive 550 e 650), nelle quali la trasmissione primaria era mista e la lubrificazione a carter umido, avevano la distribuzione monoalbero.
In seguito per i suoi modelli a quattro cilindri la casa è però passata con decisione alla soluzione bialbero, come del resto avevano già fatto la Kawasaki e la Suzuki per i loro motori di pari frazionamento (serie iniziate rispettivamente con la Z 900 del 1973 e con la GS 750 del 1976).
Gli unici costruttori europei che hanno prodotto moto di progettazione veramente nuova e moderna dopo la metà degli anni Sessanta, quando è iniziata la ripresa del mercato delle due ruote, che poi si è trasformata in autentico boom, sono stati quelli italiani e la tedesca BMW.
La grande industria inglese, ancorata a schemi ormai obsoleti e incapace di rinnovarsi, si avviava verso la fine della sua gloriosa storia. Tra le nostre case la prima a proporre un motore con distribuzione monoalbero è stata la Laverda con la sua 750 bicilindrica (la versione iniziale di 650 cm3 è stata costruita in poche decine di esemplari soltanto, nei primissimi mesi di produzione). Il motore risentiva di una forte influenza nipponica per quanto riguarda non solo l’estetica ma anche alcuni schemi costruttivi.
Aveva un alesaggio di 80 mm e una corsa di 74 mm, un albero a gomiti composito che poggiava su quattro supporti di banco e la trasmissione primaria a catena. Il basamento si apriva secondo un piano orizzontale e la catena di distribuzione (duplex) era collocata in posizione centrale. Il modello iniziale, entrato in produzione nel 1968, è stato seguito da diversi altri (S, SF, GTL), via via migliorati e più performanti. Tra di essi spicca la SFC da competizione, protagonista di tante gare, in particolare su lunghe distanze.
La prima Ducati bicilindrica di serie è stata la 750 GT, presentata nel settembre del 1970 ed entrata in produzione l’anno seguente. Spiccava l’inconsueta architettura a L del motore, che manteneva la distribuzione monoalbero impiegata nei monocilindrici, col tipico comando a alberelli e coppie coniche.
Le due valvole di ogni cilindro erano inclinate tra loro di 80°. La trasmissione primaria era a ingranaggi e il cambio del tipo con presa diretta; di conseguenza l’albero a gomiti ruotava all’indietro.
Nel 1972 ha fatto la sua comparsa la 750 Sport, seguita l’anno dopo dalla Super Sport con distribuzione desmodromica. Nel 1974 con la 860 GT la cilindrata è aumentata, grazie a un incremento dell’alesaggio, passato da 80 a 86 mm (la corsa rimaneva di 74,4 mm).
I modelli che hanno impiegato questo motore, costruito in più versioni, si sono susseguiti fino alla metà degli anni Ottanta.