Massimo Clarke: "BSA, ricordo di una grande Casa"
Poco più di quaranta anni fa, alla fine del 1971, chiudeva i battenti il reparto corse di uno dei più grandi e famosi costruttori inglesi, le cui splendide moto erano state grandi protagoniste di un’epoca irripetibile. Era l’inizio della fine per il glorioso marchio BSA. Il 1972 è stato l’ultimo anno di piena attività, per questa casa. La commercializzazione di alcuni modelli di serie, quasi sempre assemblati utilizzando parti giacenti in magazzino, è continuata, a ritmi e con volumi via via decrescenti, fino quasi al termine del 1973. In seguito ci sono stati alcuni tentativi di far rinascere il marchio, realizzando delle moto con motore di fabbricazione altrui ma si è trattato soltanto di fuochi di paglia.
Gli inizi
La BSA aveva iniziato la sua attività nel 1861 producendo armi leggere (e infatti l’acronimo sta per Birmingham Small Arms), tanto è vero che per lungo tempo lo stemma è stato costituito da tre fucili incrociati. Poi sono arrivate le biciclette e, nei primi anni del XX secolo, le moto (con motore di propria fabbricazione dal 1910). L’azienda è gradualmente diventata un grande gruppo industriale, attivo in svariati settori. Durante la seconda guerra mondiale ha prodotto per le forze armate britanniche oltre 120.000 esemplari della monocilindrica M 20 a valvole laterali di 500 cm3. Punto di forza della produzione prebellica erano delle belle e performanti monocilindriche di 350 e 500 cm3, alle quali si aggiungevano alcune grosse bicilindriche a V. Diversamente dalle altre grandi case inglesi, la BSA non si è mai impegnata ufficialmente nei gran premi e quindi non ha mai vinto al Tourist Trophy né nelle gare del campionato mondiale di velocità, istituito nel 1949. Ha però ottenuto importanti successi nelle competizioni per le moto derivate dalla serie e nel campionato mondiale di Cross, con due titoli vinti dal grande Jeff Smith in sella a una moto con motore direttamente estrapolato da un modello stradale.
Gli anni Cinquanta
Nel 1951 la casa di Birmingham ha acquisito la Triumph, che già possedeva l’Ariel e la New Hudson, formando un gruppo che per un certo tempo è stato il più grande costruttore di moto del mondo. La gamma BSA comprendeva delle semplici e robuste monocilindriche a due tempi denominate Bantam, direttamente copiate dalle tedesche DKW RT, delle ottime monocilindriche a quattro tempi con distribuzione ad aste e bilancieri di 350 e 500 cm3 e delle bicilindriche di 500 e 650 cm3 , in produzione rispettivamente dal 1947 (con riprogettazione del motore, sempre a due cilindri paralleli, nel 1949) e dal 1950. Si trattava delle A7 e delle A 10, dotate di cambio separato, che sono state costruite in più versioni e che sono state grandi protagoniste della scena motociclistica mondiale fino all’inizio degli anni Sessanta. Il principale mercato estero per queste BSA era quello americano, con numeri di vendita molto cospicui. Si trattava di moto dalle prestazioni elevate, con uno styling che ha fatto epoca e ottime doti di robustezza e affidabilità. Non per nulla quando ha deciso di realizzare una grossa cilindrata, all’inizio degli anni Sessanta, la giapponese Meguro ha copiato direttamente un motore bicilindrico BSA.
Gold Star
Tra le monocilindriche, un posto di rilievo spetta alla Gold Star, una moto giustamente entrata nella leggenda per le sue prestazioni, la sua robustezza e la sua versatilità, oltre che per la meravigliosa estetica di alcune versioni. Il motore, che derivava da un progetto di Val Page del 1937, debitamente riveduto e sviluppato nel corso degli anni Cinquanta da Doug Hele, aveva la distribuzione ad aste e bilancieri e la lubrificazione a carter secco, ed era collegato al cambio separato da una trasmissione primaria a catena posta sul lato sinistro. La versione più famosa è stata la DBD 34 di 500 cm3 (alesaggio e corsa = 85x 88 mm), prodotta dal 1956 al 1963, che è arrivata ad erogare una potenza dell’ordine di 39 cavalli a circa 7000 giri/min. Minore diffusione hanno avuto le 350 (B 32, DB 32). La Gold Star è stata prodotta in versioni sportive stradali, da cross, da enduro e da deserto; queste ultime erano destinate al mercato USA, dove hanno vinto molto.
Gli anni Sessanta
Il posto di queste ottime monocilindriche è stato preso dai modelli con cambio in blocco, derivate come architettura d’assieme dalla C 15 di 250 cm3 del 1958. Nel 1960 è apparsa così la B 40 di 350 cm3, che si è evoluta nelle famose 441 Victor, realizzate in versioni Enduro, Roadster (poi divenuta Shooting Star) e da cross, entrate in produzione attorno alla metà degli anni Sessanta. Grazie ad esse la BSA ha vinto il mondiale di cross nel 1964 e 1965, ed è arrivata seconda nel ’68 e ’69. L’ultima, sfortunata discendente di questa linea evolutiva è stata la B 50, con cilindrata portata a 500 cm3. È stata prodotta nel 1971 e 72 in tre versioni. Un esemplare, elaborato da Mead e Tomkinson e condotto da Brown e Rollason, arrivò primo della classe 500 e secondo assoluto (dietro la Laverda 750 di Brettoni e Angiolini) nella 24 ore di Barcellona del 1971.
Le bicilindriche con cambio in blocco (ma sempre con primaria a catena, due soli cuscinetti di banco, cilindri in ghisa e albero a camme piazzato nella parte superiore del basamento, subito dietro il piano di appoggio dei cilindri) sono comparse nel 1962 e sono state prodotte nelle versioni di 500 e 650 cm3. Tra i modelli di maggiore successo, tutti 650, vanno ricordati il Thunderbolt (monocarburatore) e il Lightning (bicarburatore). Prima della comparsa della tricilindrica Rocket Three la BSA di prestazioni più elevate era la Spitfire, prodotta in quattro versioni successive, dal 1964 al 1969. Disponeva di poco più di 50 cavalli (a detta della casa) e superava i 180 km/h. Meno popolare ma bellissima e divertente era la Firebird Scrambler, studiata principalmente per il mercato americano. Purtroppo, con una decisione sciagurata, nel 1971 le bicilindriche BSA sono state completamente rivedute a livello estetico e di ciclistica. Sono così state dotate di un nuovo telaio, nel quale era ricavato il serbatoio dell’olio, di orribili mozzi conici e hanno perso tutto il loro fascino. Per quanto riguarda lo styling, basta dire che sono diventate davvero brutte. Inoltre, erano oramai superate tecnicamente. E infatti l’insuccesso commerciale delle ultime versioni è stato clamoroso.
La A 75 R Rocket
La BSA ha affidato alla A 75 R Rocket Three, praticamente gemella della Triumph Trident (il motore differiva solo per la leggera inclinazione della bancata dei tre cilindri e per i coperchi laterali) le ultime speranze di risollevare le sorti della azienda. Questa moto disponeva di 58 cavalli a 7250 giri/min, che le consentivano una velocità di punta prossima ai 200 chilometri orari. In un certo senso il motore poteva essere considerato, come schema costruttivo, un Triumph 500 con l’aggiunta di un cilindro. La A 75 R è stata lanciata nel 1968, anche se in effetti la produzione avrebbe potuto iniziare un paio di anni prima. Le prestazioni erano ottime, anche se i freni non erano certo il massimo della vita, e il motore era robusto, ma oramai abbastanza datato come soluzioni e come layout complessivo. Le esigenze di manutenzione erano considerevoli e l’estetica non proprio entusiasmante. Se a questo si aggiunge che all’inizio degli anni Settanta la concorrenza proponeva moto molto più moderne, con avviamento elettrico, freni a disco e prestazioni esaltanti, appare chiaro per quale ragione la Rocket Three non è riuscita a salvare la BSA, nonostante gli importanti successi ottenuti in gare prestigiose come la 200 miglia di Daytona del 1971. Proprio le tricilindriche da competizione, dotate di uno splendido telaio realizzato da Rob North, sono state il vero canto del cigno della casa di Birmingham. Ricercatissime, sono tra le grandi protagoniste delle odierne gare per moto storiche, nelle quali per la verità si impiegano quasi sempre delle bellissime repliche.
Domanda
Nostalgia di questi capolavori!!