Suzuki Speed-date: Elias, Rins e Iannone
La prima impressione è quella che conta, dicono gli studiosi del comportamento. Anzi, messa giù ancora più dura, un vecchio detto americano dice che “non c’è una seconda possibilità di fare una prima impressione”. Non sappiamo se l’idea di Suzuki, quando ci ha invitato a questo Speed Date con tre dei loro piloti ufficiali, fosse proprio quella di dare tanta rilevanza alle sensazioni epidermiche: fatto sta che trovarsi a contatto con Elias, Rins e Iannone per svolgere tre velocissime interviste – cinque minuti ciascuno – senza essere fra la ristretta cerchia di inviati del motomondiale che vivono con loro per diciotto weekend all’anno, è un’esperienza impegnativa.
Un tavolino, un campanello che suona ogni cinque minuti per segnalare il cambio di sedia, e un campanello a disposizione dei piloti per dribblare domande a cui non vogliono rispondere. Suona il primo e tocca a me.
Toni Elias: “In America servono le palle”
Toni ha un sorriso contagioso e la risata pronta. Grazie, direte voi, è facile essere allegri quando sei l’uomo che ha riportato Suzuki alla vittoria negli USA dopo tanti anni di digiuno. L’impressione però è che Elias sia una persona solare e allegra, al di là del professionismo che lo fa sentire a suo agio anche davanti ad una lunga teoria di rompiscatole come noi giornalisti.
Toni, intanto congratulazioni – hai riportato il team Yoshimura ai fasti del passato, quando fra Mladin e Spies monopolizzavano i podi della Superbike AMA. Lo scorso anno c’è mancato poco, quest’anno…
«Si, è stata una gran bella stagione. Abbiamo lavorato durissimo, soprattutto per sviluppare la moto nuova che è arrivata a campionato di fatto già iniziato e non è stato facile, ma visto che la base è eccezionale siamo andati subito fortissimo. Ho avuto la fortuna di lavorare con un team forte, esperto, abituato a vincere, che sa fare la differenza, quindi anche partendo da zero siamo riusciti a rendere la GSX-R subito molto competitiva. D’altra parte facevamo andar forte anche la vecchia con la quale abbiamo corso nel 2016, quindi considerando che questa va tanto più forte di suo…».
Com’è il campionato AMA? Ambiente, piste, avversari…
«E’ un campionato molto bello, l’ambiente è sicuramente più familiare che non in Europa. Meno professionale sotto certi aspetti, ma in senso buono: il livello delle squadre di punta è comunque elevatissimo, però nel paddock si respira un’aria un po’ più rilassata. Le piste sono bellissime, mediamente molto veloci e davvero affascinanti: sono tecniche, fatte come una volta, con certi rettilinei e curvoni che tolgono il fiato – servono le palle. Sulla sicurezza c’è ancora da lavorare, però: qui al posto delle vie di fuga ogni tanto ci sono i muri».
Ma il livello degli avversari? E’ tanto che la scuola americana non sforna campioni…
«Il livello è più alto di quanto non si creda qui in Europa, sono rimasto abbastanza sorpreso – Hayes e Beaubier farebbero bene anche nel Mondiale. E poi credo che l’arrivo di piloti dall’Europa sia uno stimolo per i piloti statunitensi, perché li spinge a crescere e a migliorare: gli serve solo che le Case credano un po’ di più nel campionato, come del resto fanno Suzuki e Yamaha, e poi avranno tutt’altra rilevanza».
Ding. Suona il campanello, avanti un altro.
Alex Rins: “Posso migliorare dappertutto”
Alex Rins ha lo sguardo serio, forse un po’ timido, di chi preferisce far parlare i risultati piuttosto che parlare lui di sé. D’altra parte, dopo cinque anni fra Moto3 e Moto2 in cui ha fatto dodici vittorie e quaranta podi, finendo sempre nei primi tre tranne che nell’anno di esordio, è facile capire che abbia la giusta fiducia nei suoi mezzi.
Educatissimo, ti guarda negli occhi e trasmette l’impressione di tenerti nella massima considerazione. E credeteci, non è affatto scontato quando si parla di un pilota della MotoGP. Ma cosa chiedi ad un pilota che, al debutto in classe regina, ha passato un terzo di stagione infortunato? Iniziamo andando un po’ a ruota libera.
«Si, è stata una stagione piuttosto difficile. Classe nuova, con le moto più veloci e complesse del mondo, con una guida molto diversa da tutto il resto: mi sarebbe servito fare chilometri ed esperienza, e invece mi sono trovato a dover recuperare da un brutto infortunio. Però la vedo comunque in maniera positiva, perché nel giro di tre gare ho iniziato a capire meglio la moto, e i risultati hanno iniziato a migliorare».
Non dev’essere stato nemmeno facile lavorare per imparare una moto tanto nuova e contemporaneamente svilupparla. Senti di essere riuscito ad aiutare Suzuki in questo?
«Certo, non avendo riferimenti è difficile dare indicazioni sensate. Però la squadra si fida molto di me e delle mie sensazioni, e mi tiene in grande considerazione, per cui sono riuscito ad aiutarli. Anche perché è un lavoro che aiuta anche me a capire meglio la guida, la messa a punto, e soprattutto contribuisco a rendere competitiva la moto con cui poi devo correre».
In effetti hai fatto delle grandi stagioni nelle classi inferiori, ma quanto conta quel tipo di esperienza? Nello specifico, parlando di Moto2, ritieni che abbia un valore formativo per la MotoGP?
«Si e no. Dal punto di vista della guida il salto da Moto3 a MotoGP sarebbe troppo grande, quindi lavorare con una moto più pesante e potente è sicuramente utile. E poi si fa anche tanta esperienza nella gestione della gara, nella precisione della guida e nella messa a punto della ciclistica, perché le moto sono vicinissime e non avendo tantissimi cavalli sono dettagli minimi – nell’assetto, nella guida e nella concentrazione – a fare la differenza sul risultato».
«Detto questo, dal punto di vista della messa a punto purtroppo no, allo stato attuale la Moto2 serve davvero a poco. Manca del tutto l’elettronica, che in MotoGP è fondamentale: cambiando il comportamento del motore, l’azione del traction control e soprattutto quella della gestione del freno motore, si va ad influenzare profondamente anche il comportamento della ciclistica, con interazioni molto complesse che richiedono sensibilità ed esperienza. In questo la squadra mi aiuta moltissimo, ma anche io devo ancora imparare molto, in termini di indicazioni per la messa a punto ma anche di guida, per adattarmi alla gestione di tutte queste variabili».
Cosa ti manca al momento, in termini di guida, per sfruttare al meglio la MotoGP?
«Tutto e niente, a dire la verità. Non c’è un aspetto specifico, devo – e posso – migliorare un pochino dappertutto in ottica della MotoGP, adattare ancora meglio il mio stile ad una moto così particolare. Aver saltato tante gare non mi ha sicuramente aiutato, perché per migliorare bisogna fare chilometri…».
Suona il campanello, l’intervista è finita. Saluto Alex pensando all’impressione di maturità e determinazione che mi ha lasciato, e che con queste qualità non potrà che fare molto meglio. A Valencia, tre giorni dopo, Rins ha ottenuto il suo miglior risultato in MotoGP con uno spettacolare quarto posto. Scusate se è poco.
Andrea Iannone: “Lo sviluppo non si è mai interrotto”
Dite pure quello che volete, un minimo di soggezione quando si parla con un pilota del calibro Iannone entra sempre in gioco, anche se forse anagraficamente sono più vicino a suo padre che a lui. Da parte dei piloti c’è sempre un po’ di lecita diffidenza nei confronti di noi giornalisti, soprattutto se non facciamo parte del circus mondiale, e noi, da parte nostra, siamo prima di tutto degli appassionati che, da bordo pista nella migliore delle ipotesi, ci sogniamo di avere un decimo del loro manico.
Mettiamoci che Andrea è al centro dell’attenzione per la sua vita sentimentale e che è reduce da una stagione in cui i risultati sono stati sicuramente meno che ideali, e la ricetta per un’intervista ancora più breve del previsto è praticamente perfetta. Siamo alla vigilia di Valencia, quindi poco dopo le due prestazioni maiuscole di Motegi e Phillip Island. Quindi, stante che dell’aspetto glamour della sua vita mi interessa poco, provo a capire meglio l’aspetto sportivo.
Andrea, hai iniziato l’anno con un garone in Qatar, nonostante la scivolata, poi una serie di piazzamenti opachi e in Giappone sei risorto di colpo. Cosa è cambiato?
«In realtà molto meno di quanto non si possa immaginare. La moto è progressivamente cresciuta, perché dal Giappone non hanno mai smesso di lavorare, e anche noi come squadra abbiamo sempre dato il 100%, anche se forse da fuori a qualcuno può non essere sembrato così. Ma soprattutto credo che siano arrivate piste a noi più favorevoli, dove abbiamo fatto meno fatica in prova, e quindi poi, in gara, abbiamo avuto un pizzico di fortuna in più e il risultato è arrivato. In un campionato così tirato, dove il livello è così alto come in MotoGP, bastano dettagli piccolissimi per fare molto meglio o molto peggio».
Iannone è un professionista e non si sbilancia, anzi continua a parlare, ma i concetti restano gli stessi. Anzi, a voler essere maligni, verrebbe quasi da pensare che mi stia facendo una supercazzola di tognazziana memoria.
Però, senza voler gettare la croce addosso a nessuno, se il Project Leader dell’operazione MotoGP è cambiato in corso di stagione (è tornato Shinichi Sahara, già in forza al team in passato e “papà” della nuova GSX-R 1000) qualcosa vorrà dire…
«Sinceramente non direi. Non ho nemmeno gli elementi per commentare le scelte del Giappone: quello che posso dire però è che la Casa ci ha sempre fatto sentire il suo appoggio, lavoriamo sempre a stretto contatto e non ho mai percepito una mancanza di fiducia da parte loro. Quindi credo che si tratti solo del fatto che abbiamo raccolto i risultati a cui avremmo sempre potuto puntare, ma che non abbiamo raggiunto per cause esterne alla nostra volontà».
Va bene, allora parliamo del futuro. Cosa ti aspetti dal 2018?
«Credo che dopo il lavoro di quest’anno verrà il momento di raccogliere. Sappiamo dove possiamo puntare e credo che adesso abbiamo tutto per farlo: molto del lavoro di quest’anno è stato fatto in ottica 2018, quindi è lecito puntare più in alto. Dove credo che dovremmo essere».
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vtr4ever, Grosseto (GR)Perche Suzuki nel campionato ama e bsb a sempre vinto tutto?