Nico Cereghini: “Se ce l’abbiamo fatta una volta…”
Ciao a tutti! Un amico francese mi chiede di raccontare ciò che ricordo della Laverda V6 e del Bol d’Or 1978 che disputai con quella moto e con Carlo Perugini, bel pilota e grande amico marchigiano. Il francese è appassionato del marchio di Breganze, sta scrivendo un libro sulla sei cilindri 1000, ed ecco che i fili della mia memoria, che dovevano stare, aggrovigliati, in qualche angolo buio, progressivamente si sciolgono e diventano storie e personaggi. Non voglio annoiarvi con fatti privati di quarant’anni fa, quando il libro uscirà lo segnalerò agli interessati. Voglio soltanto collegare quell’epoca alla nostra.
La Guzzi navigava a vista. Il discutibile De Tomaso, proprietario dal ’73, era impegnato a copiare le Honda a quattro e sei cilindri sulle linee Benelli e per fortuna c’era un tecnico come Lino Tonti e non furono abbandonate le bicilindriche a V; la Le Mans fu un successo, la California quasi, ma le piccole V35 e V50 davano un mucchio di problemi, i concessionari erano disperati e solo i più tenaci resistettero, la leggendaria aquila rischiò di inabissarsi nel lago ad ali aperte.
E la Ducati? Ammiravo l’ingegner Fabio Taglioni, ma il genio non basta se la gestione dei manager è disastrosa. A metà anni Settanta Borgo Panigale finì nell’orbita dello Stato, Efim e Finmeccanica, e quando arrivarono finalmente i fratelli Castiglioni a salvarla, nei primi Ottanta, la produzione delle moto era calata fino a duemila pezzi. Le corse? Per i vertici erano soldi buttati, e se non ci fossero stati quelli della NCR e un eroico Franco Farnè, anche la più leggera e potente delle bicilindriche italiane, la 750 nata nel ’73 dopo la 200 Miglia di Imola, sarebbe finita in niente. Senza i Castiglioni, oggi la Ducati neanche esisterebbe.
Purtroppo, proprio la mia Laverda è sparita. In quel lontano ’78 guidavo al Castellet la velocissima V6 1000 e però già si sapeva che difficilmente quel progetto modulare sarebbe diventato realtà. Massimo Laverda sognava nuove bicilindriche compatte e leggere, quattro cilindri potenti e raffinate, sei cilindri da sogno; ma la crisi mordeva e la proprietà era troppo frazionata e incerta. Purtroppo, Massimo se n’è andato nell’85 a soli quarantasette anni e il suo marchio, dopo tante vicissitudini, è finito all’Aprilia, alla Piaggio e poi nel dimenticatoio.
Anche la Guzzi dopo mille peripezie finì nelle mani di Beggio e quindi alla Piaggio. Oggi, benché piccola, è viva e si difende. Mentre la Ducati, nel gruppo tedesco VW, è viva più che mai e lavora forte. Nonostante i rimpianti di molti anzianotti, insomma, negli anni Settanta e Ottanta l’industria italiana della moto era in una profonda depressione e stava andando a fondo. Se ce l’abbiamo fatta allora –mi dico - possiamo farcela anche questa volta.
Io da buon italiano vorrei fosse davvero così, ma purtroppo ogni giorno vedo il nostro paese crollare in una depressione economica sempre più devastante.
Purtroppo tutto aumenta, dal costo dei carburanti, alle materie prime, alla mano d' opera, all' aumento dell' import.
Sempre più spesso le ditte, e parlo della mia zona, sub-appaltano ad altre ditte straniere perché il costo dei loro operai è inferiore al nostro, quindi più conveniente.
Peccato che facendo così, a mio avviso, si sfuma un po' la qualità vera e propria del nostro made in Italy, perché abbiamo fior di industrie, fiori di cervelli a disposizione, ma spesso per ragioni di sopravvivenza, sono costretti ad andare a lavorare all' estero lasciando così, a malincuore il nostro paese.
Penso che tutto nella vita si può fare, basta volerlo, ma penso che tutti, e dico tutti, anche se pur piccolo, dovremo dare il nostro contributo.
La mia non è critica, ma solo buona speranza in un futuro migliore che mi auguro di lasciare alle nuove generazioni.
Onesti
Non per questo le case vanno giudicate male.