Giacomo Agostini: “Troppe ali e troppi cavalli, la MotoGP non mi piace più” [GALLERY]
Incontro con Ago al D-Store Dainese di Vicenza, nell’ambito del cinquantesimo anniversario del marchio. Circa trecento appassionati ad ascoltare il quindici volte campione del mondo, a fare un selfie con lui, ad approfittare dell’occasione per visitare il D-AR, che è il museo Dainese con la storia e la tecnologia della protezione e delle corse. Da Agostini appunto, fino a Valentino e alla Dakar.
Giacomo Agostini è stato il protagonista degli anni Sessanta e Settanta, testimone dei profondi cambiamenti delle moto, delle piste, dell’equipaggiamento. Dal casco a scodella all’integrale, per esempio.
“La mia scodella - ricostruisce Mino - era prima l’inglese Cromwell e poi AGV. Era un casco poco protettivo, certo, ma leggero e pratico, d’altra parte eravamo abituati così. Quando Gino Amisano mi propose l’integrale feci l’errore di provarlo a Spa, dove si girava a 210 di media. E mi fece un brutto effetto: quel peso in testa e quell’ingombro mi spostavano sulla moto… Lì lo scartai, poi lo provai su una pista più lenta e capii che sarei stato molto più sicuro”.
D’altra parte, la mentalità era quella: il pilota deve rischiare. Findlay diceva addirittura: “Il pilota deve portare in faccia i segni delle sue cadute!”. Semplicemente non si immaginavano alternative…
“Già, come al TT: si correva e se si cadeva probabilmente si moriva, ma il pilota deve rischiare così, si pensava, questa è la sua vita e la sua passione. Si accettava culturalmente il rischio della morte, la sicurezza era un concetto sconosciuto”.
Parliamo del TT, Ago ne ha vinti dieci e ha il titolo per parlare.
“Pericoloso, anzi più che pericoloso. Ma affascinante: bisogna ammettere che girare lì era la cosa più entusiasmante che si potesse provare. E ancora oggi tutti quelli che ci vanno, piloti o spettatori, tornano entusiasti… Tanta velocità, e la velocità è come una droga, ti dà la carica. Tecnicamente poi c’era tanto, c’erano certi passaggi esclusivi dell’isola, il salto, lo schiacciamento negli avvallamenti ad alta velocità… Purtroppo tanti morti, questa estate sono andato là e ancora abbiamo pianto cinque vittime. Dopo la morte di Parlotti nel ’72 tutto cambiò: lui era un mio amico e il pomeriggio precedente eravamo andati a ripassare insieme la pista con la macchina. Allora dissi basta! Correteci se volete, ma il TT non può più restare una prova del campionato mondiale, non dobbiamo venirci per forza”.
Qualcuno gli chiede qual è stata moto la più bella della sua carriera e Ago risponde: tutte, dalla Morini alla Yamaha, ma passare dalla monocilindrica 250 Morini alla quattro cilindri 500 di Hailwood lo lasciò senza fiato. Hailwood, Phil Read, il bergamasco ha ricordato i due grandi campioni britannici e ha fatto un ritratto del team MV, che per lui è stato una famiglia. Passare alla Yamaha nel ’74 non fu una scelta facile, ma meditata: il quattro tempi stava per finire. Come fu il primo contatto con la 500 Yamaha in Giappone?
“Ebbi l’impressione di poca potenza ma trovai anche tanta agilità, del resto il motore pesava venti chili in meno… Restai una settimana a girare in pista, dal mattino alla sera, e non ero soddisfatto ma i tempi vennero fuori anche se io dicevo tra me e me: qui sono fermo!”
E poi subito la prima vittoria con la 700 giapponese, nella 200 Miglia di Daytona. La prima volta in catino di alta velocità, la prima gara con una due tempi, mai viste le slick… Una bella impresa.
“Appena arrivato negli Usa, trovai sul giornale l’intervista a Kenny Roberts che diceva: altro che Ago, sono io il campione del mondo perché l’America è il mondo. Questo mi caricò, partii con il quinto tempo ma andai subito in testa; poi a metà gara ero scoppiato, disidratato, e stavo per arrendermi, ma per fortuna mi ripresi con il pensiero che tanta gente era venuta apposta per me dall’Europa… Dopo la vittoria, Roberts era sistemato”.
Ma Agostini è stato spinto a rispondere alle curiosità di molti sul presente: cosa pensa delle MotoGP e delle ali, che piloti vorrebbe oggi in un suo ipotetico team…
“Le ali lasciamole agli aerei. A me non piacciono. Le moto vanno troppo forte e sono troppo estreme, cosa servono trecento cavalli? Ne basterebbero la metà per avere delle belle gare e allora bisogna arginare gli ingegneri. E poi le gomme: sono diventate determinanti per il risultato e appiattiscono i valori. E’ possibile che siano tutti campioni? I grandi campioni saranno due, saranno tre, non possono essere tutti campioni…”.
Infine i nomi dei suoi piloti preferiti: Pecco Bagnaia e Fabio Quartararo sarebbero le punte del suo team.
Ricordo bene le ultraplurifrazionate moto giapponesi (ed anche italiane), ad esempio, o alcuni strani esperimenti aerodinamici. Allora, però, i tecnici avevano più libertà d'azione e di sperimentazione. Col passare del tempo i regolamenti, con la scusa del contenimento dei costi, sono diventati sempre più "asfissianti" e i tecnici odierni sono costretti in spazi ristrettissimi, dove cercano le soluzioni ancora possibili che, se funzionano, sono sempre contestate e spesso oggetto di nuove limitazioni.