Márquez come Doohan: una moto difficile per fare la differenza
Non mi interessa una moto più facile con cui possano vincere tutti, voglio una moto più veloce. Se è difficile non è un problema. Questa, in estrema sintesi, la teoria di Márquez espressa in un’intervista alla testata australiana crash.net. Una dichiarazione che rafforza l’opposizione a Jorge Lorenzo quando, a metà campionato, il maiorchino chiese modifiche alla Honda RC 213V per renderla più guidabile. O anche una risposta alla delusione espressa da Cal Crutchlow, che ha invece lamentato esplicitamente - come suo solito - di aver trovato nei test di Valencia una Honda RC 213V ancora nervosa e ostica.
Una posizione che di primo acchito potrebbe sembrare poco sensata: una moto più gestibile e lineare nel comportamento significherebbe quasi sicuramente un mezzo su cui è più facile ragionare in chiave strategica nel corso della gara. Un mezzo su cui probabilmente lo stesso Márquez finirebbe meno volte a terra in prova, e una moto che probabilmente gli lascerebbe altrettanto maggior margine di manovra nelle battute finali delle gare - quelle che al momento, almeno episodicamente, sembrano l’unico punto debole di Marc Márquez,
Insomma, la sua posizione sembra poco sensata, almeno finché non si allarga un po’ il campo visivo, magari andando un po’ a ritroso nel tempo per trovare un altro esempio di ragionamento del genere.
Siamo nella seconda metà degli anni 90. Dal 1994 in avanti, Michael Doohan ha vinto a ripetizione gare e mondiali. Un dominio molto simile a quello di Márquez: Mick ha sempre lasciato agli avversari solo le briciole, forte di una guida nettamente superiore - o semplicemente solo più adatta ai mezzi dell’epoca - rispetto ai suoi avversari. Se il suo record di vittorie in un anno è caduto, per intenderci, è quasi solo perché oggi si corrono molte più gare in una stagione.
Anche allora, per certi versi, ci si trovava in una situazione tecnica relativamente stagnante, con un appiattimento generale delle soluzioni. Dopo decenni di evoluzione, tutte le Case erano giunte ad utilizzare propulsori V4 con fasatura degli scoppi big-bang; salvo casi rarissimi, per vincere erano necessari pneumatici Michelin (che però venivano realizzati in diverse specifiche per andare incontro alle necessità di Case e piloti) e pur con ovvie differenze fra Honda, Yamaha e Suzuki, il panorama tecnico era relativamente uniforme.
Le gomme, in particolare, furono protagoniste di un notevole balzo evolutivo, semplificando molto la vita dei piloti della classe regina. Di colpo, Doohan trova in Crivillé e Okada avversari più temibili: il livellamento tecnico (verso l’alto) permette a più piloti di sfruttare il mezzo. E Mick incassa qualche sconfitta, cosa che lo rende molto nervoso. La sua risposta, ora che le gomme sono migliorate, è tornare alla fasatura regolare per il motore. Qualcuno pensa che sia matto. E invece lui, guidando la 500 come era necessario fare a suo tempo - sempre oltre il regime di coppia massima, per rendere meno violente le reazioni, spesso di traverso - riesce a sfruttare il leggero beneficio in termini di potenza massima, risultando più veloce nei test precampionato.
Detto e fatto: Crivillé e Okada chiedono e ottengono di provare il motore screamer. Tempo qualche giro ed entrambi lanciano la moto in tribuna. La NSR 500, così, diventa troppo nervosa e difficile da controllare, ed entrambi tornano precipitosamente al motore a scoppi irregolari.
Doohan riprende le distanze. Lui vuole una moto più difficile, che solo lui è in grado di sfruttare, lasciando agli altri mezzi meno prestazionali ma più accessibili. Nessuno è in grado di giocarsela ad armi pari con lui, perché nessuno è in grado di usare le armi che usa lui. La situazione torna di nuovo in discussione quando la benzina senza piombo arriva a tagliare le unghie ai motori: le 500 perdono qualche cavallo ma soprattutto un po’ della loro tradizionale rabbia, e i segugi si riavvicinano alla preda. Ma questa è un’altra storia.
Il parallelo sta tutto qui: oggi come allora, sia pure per fattori diversi e più esogeni (monogomma con pneumatici volutamente plafonati nelle prestazioni, centralina unica, regolamenti che livellano le prestazioni limitando lo sviluppo per chi vince) ci troviamo in una situazione tecnica di incredibile equilibrio. Basta guardare ai tempi sul giro: i distacchi, sia sul giro secco che sulla distanza, si riducono anno dopo anno - una volta, un distacco di sette/otto decimi in prova non voleva dire nulla e consentiva spesso di partire in seconda fila, adesso è un’inappellabile condanna ad arrancare nelle retrovie.
Come si fa la differenza in questa situazione? Con la guida, perché più si plafona il panorama tecnico, più il peso grava sulle spalle del pilota. Che però ha un compito davvero arduo, perché le MotoGP attuali sono talmente sofisticate che permettono a tanti piloti di arrivare vicinissimi al limite, ma a pochissimi se non a nessuno di andare oltre - nel senso di interpretarle con una guida diversa da quella per cui sono pensate, come a volte accadeva in passato. La fascia prestazionale, fra il limite superiore e quello inferiore, è davvero ristretta.
Serve quindi un mezzo che permetta di fare la differenza. Un mezzo potenzialmente più veloce ma più critico nella guida, che solo il migliore è in grado di sfruttare e far rendere con regolarità. Marquez ci riesce, tutti gli altri ci rischiano le ossa.
Lorenzo, Pedrosa e Crutchlow non sono sicuramente dei fermi, ma con il passare delle stagioni - e lo spostamento dello sviluppo nella direzione chiesta da Márquez - si sono trovati a dover gestire un pacchetto affilato come un rasoio a mano libera. Potenzialmente velocissimo, ma sfruttabile solo da un pilota fenomenale, una spanna sopra gli altri.
Vista così - ma attenzione: non tutti, nemmeno in redazione, la vediamo allo stesso modo - la strategia di Márquez assume tutt’altro senso. Una strategia solo relativamente rischiosa per lui, perché basta sbagliare di poco nell’equilibrio generale per sforare nella totale inguidabilità (come è successo probabilmente nel 2015); ma anche così, Márquez risulterebbe comunque sempre il più veloce in casa Honda, mantenendo quella preminenza che tutti i piloti ufficiali cercano - palesemente o meno - come prima cosa.
Una strategia invece rischiosissima da seguire per Honda, perché in caso dovesse trovarsi senza il suo numero uno per qualsivoglia motivo - dal cambio di casacca all’infortunio - significherebbe con ogni probabilità dare l’addio alle vittorie a ripetizione a cui sta facendo piacevole abitudine. L’impressione è che a Tokyo però si trovino in un circolo vizioso: la moto è già molto difficile, e l’unica possibilità è continuare a giocare all-in su Márquez, perché scontentarlo nelle richieste di sviluppo significherebbe da un lato limitarne le possibilità, e dall’altro lasciare aperture a lusinghe di altri costruttori che, dal primo all’ultimo, ovviamente non vedrebbero l’ora di mettersi in casa l’otto volte iridato.
La sentenza forse non va lasciata ai posteri, ma bisognerà attendere qualche anno perché arrivi il senno di poi a sostenerla. Perché al momento, nessuno sembra all’altezza di Márquez. Soprattutto quando dispone di una Honda che solo lui riesce a sfruttare.
In fondo la grandezza di Marquez sta tutta li.
Saper portare oltre il limite (degli altri), la sua moto.