Massimo Clarke: "Il numero perfetto? Il tre"
I bicilindrici sono stretti, hanno una erogazione vigorosa e indubbiamente una forte personalità, i quadricilindrici a parità di cilindrata possono essere più potenti; inoltre sono fluidi e prendono i giri che è una bellezza. Logico pensare a una soluzione intermedia, che abbini prestazioni elevate a uno spiccato carattere. Ecco dunque i motori a tre cilindri in linea, a quattro tempi (ai 2T dedicheremo un servizio apposito), che alcuni costruttori hanno utilizzato in passato per moto che hanno fatto la storia e che oggi costituiscono una realtà di grande interesse tecnico e di notevole successo. L’albero a gomiti, con manovelle disposte a 120°, assicura l’equidistanza tra le fasi utili e una perfetta equilibratura delle forze d’inerzia. Una coppia del primo ordine, non bilanciata, può dare origine a vibrazioni avvertibili, anche se di entità abbastanza contenuta, che nei motori moderni vengono abbattute facendo ricorso a un albero ausiliario di equilibratura. Il suono dello scarico può essere addirittura esaltante.
A rilanciare questa architettura costruttiva nel corso degli anni Novanta è stata la rinata Triumph che ad essa ha legato i suoi più importanti successi e la sua stessa immagine. È poi stata la volta della Benelli e, più di recente, della MV Agusta e quindi della Yamaha; queste ultime due case avevano già in passato sfruttato tale schema costruttivo per alcune realizzazioni, sia da corsa (nel caso della azienda italiana) che di serie (per quanto riguarda il colosso giapponese).
Una storia italiana
La storia dei motori a quattro tempi a tre cilindri in linea, fondamentalmente inizia sulle sponde del lago di Como negli anni Trenta, con la Guzzi GT a tre cilindri di 500 cc, dotata di distribuzione ad aste e bilancieri e valvole parallele, e di un albero a gomiti monolitico poggiante su tre soli supporti di banco (una manovella era a sbalzo!). Questa moto, che è stata costruita in pochissimi esemplari soltanto (in pratica si è trattato di poco più di una pre-produzione) nel 1932-33, aveva il cambio a tre marce; la potenza era di 25 cv a 5.500 giri.
La casa di Mandello del Lario è tornata a questo schema costruttivo nel 1939-40 con una 500 sovralimentata, dotata di distribuzione bialbero con comando a catena. Il motore, che aveva il basamento in elektron (lega di magnesio), erogava una potenza dell’ordine di 65 cavalli a 8.000 giri. L’entrata in guerra dell’Italia ha posto fine allo sviluppo di questa interessantissima moto da competizione.
Il grande ritorno dei tricilindrici in linea a quattro tempi si è avuto nel 1965 con la MV Agusta 350 da GP, della quale è stata ricavata l’anno successivo una 500 di architettura assolutamente analoga. Queste moto formidabili sono entrate nella leggenda grazie agli straordinari successi ottenuti da Giacomo Agostini, che le ha portate alla vittoria in ben 12 campionati mondiali piloti (5 ottenuti con la 350 e 7 con la 500). La 500 aveva un alesaggio di 60,5 mm e una corsa di 57 mm. La potenza, inizialmente di circa 78 cavalli a 11.600 giri, è cresciuta nel corso degli anni; nel 1970 era dell’ordine di 83 cv a 12.500 giri. Tra le particolarità tecniche di maggiore spicco vanno ricordate le quattro valvole per cilindro, disposte su due piani inclinati tra loro di 44°, la distribuzione bialbero comandata da una cascata di ingranaggi piazzata lateralmente e l’impiego di calotte in bronzo, installate con interferenza nella testa, in corrispondenza delle camere di combustione. L’albero a gomiti composito, che come logico nei tricilindrici poggiava su quattro supporti di banco, lavorava interamente su cuscinetti a rotolamento.
Made in England
L’architettura a tre cilindri in linea ha fatto la sua comparsa in grande stile tra le moto di serie con le bellissime Triumph Trident 750 e BSA Rocket 3 nel 1968. I motori riprendevano le soluzioni tecniche impiegate nei bicilindrici Triumph e in effetti a prima vista potevano sembrare dei 500 T100 con l’aggiunta di un terzo cilindro. Erano però frutto di un nuovo progetto, realizzato mantenendo comunque invariati i principali schemi costruttivi a livello di testa, distribuzione e cambio. Rimaneva invariata la distribuzione ad aste e bilancieri con due alberi a camme nel basamento e due valvole per cilindro, fortemente inclinate. Il blocco cilindri era in lega di alluminio, con canne riportate in ghisa. Le bielle erano forgiate in lega di alluminio RR56 (contenente il 2% di rame più minori quantità di ferro, nichel e magnesio), come quelle dei bicilindrici. Completamente diverso rispetto a questi ultimi era l’albero a gomiti, con manovelle a 120°, forgiato in un unico pezzo e poggiante su due supporti laterali dotati di cuscinetti a rotolamento più due centrali muniti di bronzine. Le pompe dell’olio (di mandata e di recupero) erano a ingranaggi e non più a pistoncino, come nei bicilindrici Triumph. Il motore aveva un alesaggio di 67 mm e una corsa di 70 mm ed erogava 58 cv a 7.250 giri.
Riscossa Laverda
Verso la fine del 1972 è stata la Laverda 1000 a entrare in scena, mettendo in produzione un moderno tricilindrico bialbero dotato di distribuzione con comando a catena. Il motore aveva il basamento che si apriva secondo un piano orizzontale e la trasmissione primaria a catena. Una particolarità inconsueta era costituita dalla disposizione delle manovelle dell’albero a gomiti (di tipo composito e lavorante su cuscinetti a rotolamento), a 180° e non a 120°, come canonico nei tricilindrici in linea. Quello della Laverda 1000 è stato l’unico motore a tre cilindri a impiegare questa soluzione; in versioni successive, peraltro, la casa di Breganze è passata allo schema convenzionale.
Il motore aveva un alesaggio di 75 mm e una corsa di 74 mm ed erogava una potenza che nel 1973 veniva indicata in 78 cv a 7.250 giri. In seguito è stata sviluppata una versione di 1.200 cc, ottenuta portando l’alesaggio a 80 mm.
Quando si parlava di un possibile rilancio del marchio Laverda, nel 1999-2000 venne presentato un interessante progetto di un tricilindrico ad acqua. Purtroppo non se ne fece nulla.
La prima Yamaha
Nel 1977 è apparsa un’altra moto di grossa cilindrata con motore tricilindrico in linea, la Yamaha XS 750, con trasmissione finale ad albero e coppia conica e distribuzione bialbero a due valvole per cilindro, inclinate tra loro di 64°. Le misure caratteristiche erano quasi perfettamente quadre (68 x 68,6 mm) e la trasmissione primaria era a catena silenziosa. Il blocco cilindri era munito di canne riportate in ghisa. L’albero a gomiti in acciaio era forgiato in un unico pezzo; sia i cuscinetti di banco che quelli di biella erano a strisciamento (bronzine). La potenza era di 74 cv a 8.400 giri. Successivamente questa moto è stata realizzata in una versione di 850 cc, con l’alesaggio aumentato a 71,5 mm e una potenza di 79 cv a 8.500 giri.
Un altro motore a tre cilindri in linea, non più verticali o inclinati, ma orizzontali e con la bancata disposta longitudinalmente (architettura “a sogliola”) è stato quello della BMW K75, entrato in produzione nel 1985. In questo caso si trattava praticamente di un motore quadricilindrico della K100 privato di un cilindro! Un eccellente esempio quindi di realizzazione modulare.
Raffreddato ad acqua, questo 750 (che aveva le stesse misure caratteristiche del Triumph T150) aveva la distribuzione bialbero e due valvole per cilindro. I cilindri avevano la canna integrale con riporto al nichel-carburo di silicio. L’albero a gomiti era monolitico e lavorava su bronzine. La potenza era di 75 cv a 8.500 giri. Questo è stato il primo tricilindrico per moto a essere dotato di un albero ausiliario di equilibratura, azionato mediante ingranaggi e ruotante alla stessa velocità dell’albero a gomiti. La sua realizzazione è stata facilitata dal fatto che in effetti questo albero già c’era (era impiegato per comandare la pompa dell’acqua e quella dell’olio); è pertanto bastato dotarlo di due masse eccentriche.
Il ritorno del Tre, da Triumph a Benelli
Negli anni Novanta il mondo della moto ha assistito al grande ritorno sulla scena di un marchio glorioso, quello della inglese Triumph, che ha presentato una serie di modelli di impostazione moderna, con motori modulari tanto a quattro quanto a tre cilindri in linea, di disegno moderno e razionale, con raffreddamento ad acqua e distribuzione bialbero a quattro valvole per cilindro. Una particolarità inconsueta era costituita dall’impiego di canne cilindri riportate in umido con bordino di appoggio inferiore; le pareti esterne del blocco cilindri erano ricavate direttamente nella fusione del semibasamento superiore. I motori a tre cilindri sono stati prodotti in versioni di 750 (76 x 55 mm), 900 cc (76 x 65 mm) e, in seguito, di 955 cc, con alesaggio di 79 mm e corsa di 65 mm. Tutti questi tricilindrici erano dotati di un albero ausiliario per l’abbattimento delle vibrazioni.
Il grande successo ottenuto ha indotto la casa inglese a concentrare le proprie attenzioni, negli anni seguenti, esclusivamente sui motori a tre cilindri (con l’importante eccezione dei bicilindrici ad aria destinati agli eccellenti modelli “old style”). Nel 2004 la versione più grande dell’ormai classico tricilindrico Triumph è passato alla cilindrata di 1050 cc, ottenuta con un alesaggio di 79 mm e una corsa di 71,4 mm.
Un posto a sé spetta alla Rocket 3 della casa inglese, apparsa essa pure nel 2004. Questa moto, davvero fuori del comune come struttura, styling e dimensioni, è destinata a un mercato elitario. Il motore ha i tre cilindri in linea longitudinale e una cilindrata di ben 2,3 litri.
Nel 1999 la Benelli ha presentato il Tornado, azionato da un tricilindrico bialbero a quattro valvole di 900 cc di disegno moderno e razionale, esso pure raffreddato ad acqua e dotato di albero ausiliario di equilibratura, soluzioni ormai diventate d’obbligo. Il blocco cilindri era amovibile e aveva le canne integrali con riporto al nichel-carburo di silicio. La moto, dotata di un alesaggio di 88 mm e una corsa di 49,2 mm, è entrata in produzione nel 2002 con una potenza di 136 cv a 11.500 giri. Nel 2006 ha fatto la sua comparsa la versione di 1.130 cc di questo motore, ottenuta aumentando la corsa da 49,2 a 62 mm.
Aprilia Cube da GP
Le MotoGP a quattro tempi hanno sostituito le precedenti 500 a due tempi nella classe regina del mondiale nel 2002. Mentre Yamaha, Suzuki e Ducati hanno scelto di impiegare motori a quattro cilindri e la Honda ha sviluppato un V5, l’Aprilia ha optato per un tricilindrico in linea, che può essere considerato una autentica “fetta” di un V10 di Formula Uno (per le quali all’epoca la cilindrata massima ammessa era 3.000 cc). Sviluppato in collaborazione con l’inglese Cosworth, questo è stato il primo motore motociclistico dotato di molle pneumatiche per il richiamo delle valvole. Per il resto, si trattava di un tricilindrico potentissimo, realizzato in base alle più moderne vedute tecniche in fatto di 4T da competizione (con tanto di DLC, pistoni tipo box-n-box, bilancieri a dito e via dicendo). È stato sfortunato, ma pare che i problemi della moto fossero fondamentalmente legati all’elettronica e alla gestione della erogazione.
Europa vs Giappone
Dopo il successo ottenuto con i suoi grossi tricilindrici, la Triumph ha presentato nel 2006 la prima di una nuova generazione di moto di 675 cc, cubatura scelta anche in quanto consentiva di poter gareggiare tra le Supersport. Gli schemi costruttivi del motore e il frazionamento erano analoghi a quelli dei modelli di maggiore cilindrata, ma svariati particolari apparivano decisamente più moderni e maggiormente studiati in ottica prestazionale, a partire dal minore angolo tra le valvole (23°). Le misure di alesaggio e corsa erano 74 x 52,3 mm; la potenza, nella versione Street Triple, era di 108 cv a 11.700 giri. Dal 2010 ha fatto la sua comparsa sulla scena la Tiger 800, con la cilindrata del motore aumentata grazie a un nuovo albero a gomiti che fornisce una corsa di 61,9 mm.
Come visto in precedenza, la MV Agusta ha un legame particolare con i motori a tre cilindri, nato durante i mitici anni Sessanta. Allora si trattava di moto da competizione, ma questa “formula” costruttiva è stata ripresa di recente per la splendida F3 di 675 cc con motore bialbero a quattro valvole per cilindro. Dotato di un blocco cilindri del tipo closed deck integrale con il semibasamento superiore, questo compattissimo tricilindrico ha un alesaggio di 79 mm e una corsa di 45,9 mm ed eroga 128 cv a 14.400 giri. Tra le particolarità più significative vanno segnalati i condotti per il liquido di raffreddamento tra la pompa e il gruppo cilindri-testa ricavati direttamente all’interno della fusione del basamento e l’albero ausiliario di equilibratura che funge anche da albero intermedio della trasmissione primaria (di conseguenza l’albero a gomiti gira all’indietro). Le valvole sono in titanio.
Dalla F3 è stata derivata una moto nuda meno spinta, la Brutale 675 da 110 cavalli e con valvole in acciaio.
Successivamente, e questa è storia d’oggi, del tricilindrico varesino è stata realizzata una versione di 800 cc, ottenuta portando la corsa a 54,3 mm, destinata alla F3 800 da 148 cv a 13.000 giri e, in variante più tranquilla, alla Brutale 800.
Pure per la Yamaha la messa in produzione di un tricilindrico in linea costituisce, come si è visto, un ritorno al passato. Il nuovo motore di 849 cc è dotato di condotti di aspirazione di lunghezza diversa, al fine di ottenere una curva di erogazione particolarmente “piena” (ogni condotto infatti risulta ottimizzato per un differente regime). La distribuzione è bialbero, con quattro valvole per cilindro, disposte su due piani inclinati tra loro di 26°30’. La potenza di questo tricilindrico, che ha un alesaggio di 78 mm e una corsa di 59,1 mm, è di 115 cavalli a 10.000 giri. Rispetto a quello della FZ8, questo motore, studiato e sviluppato per l’erogazione più che per la potenza massima, pesa 10 kg in meno e ha un ingombro inferiore (la casa afferma che si tratta del più compatto della sua categoria).
Non sono giovane
E da quello che scrivi leggo già che non puoi essere in grado di darmi consigli.
piega996
[email protected]. Se sei giovane potrei darti tanti consigli.